«Vi racconto il mio Blue Note Sette anni di jazz senza crisi»

I cultori del jazz (ma non solo) ricordano bene i giorni un po' convulsi che hanno preceduto il 19 marzo 2003. Quella sera si doveva presentare alla stampa il club Blue Note di Milano, l'unico in Europa, e la sera seguente c'era l'apertura al pubblico con il gruppo del pianista Chick Corea. Al civico 37 di via Pietro Borsieri fervevano ancora i lavori: si ultimava il colore rosso della facciata su due piani, si controllava che le luci e i suoni non disturbassero i palazzi circostanti, molto più alti, e si curavano i particolari dell'elegante interno - ovviamente blu - con i suoi 280 posti, i tavolini allo stesso livello del palcoscenico come i Blue Note degli Stati Uniti e del Giappone, e le grandi fotografie dei musicisti tutt'intorno sulla balaustra del secondo piano. Il giorno di San Giuseppe tutto era pronto.
Paolo Colucci, ideatore e fondatore del club, ricorda ogni ora della fase preliminare. Ricorda pure che qualcuno gli chiese per quale motivo non avesse scelto Roma, piuttosto che Milano, per un jazz club di evidente respiro internazionale: erano passati i tempi in cui Milano poteva fregiarsi del titolo di «capitale italiana del jazz», ceduto proprio a Roma. Rispose senza esitare: «Perché sono milanese, perché lavoro qui come avvocato, e perché credo che Milano, a differenza di Roma che ha tante iniziative di questo tipo, abbia bisogno di un Blue Note». I fatti gli hanno dato ragione. «Giorno dopo giorno - dice - abbiamo aggiustato il tiro con gli orari dei due set di ogni sera, con i prezzi, con l'indispensabile chiusura del lunedì e allargando la pausa estiva. Sarebbe sbagliato continuare con il caldo e fare concorrenza ai festival dell'estate già attivi in giugno. A fine maggio abbiamo ultimato la nostra settima stagione e riapriremo ai primi di settembre. Sebbene pochi facciano questi calcoli, il Blue Note in nove mesi organizza quasi 250 concerti e non sente affatto la famosa crisi del settimo anno (ride). Sente invece quella generale, è logico. Ma nemmeno tanto».
Ecco, questo punto è importante. Come si percepisce l'attuale congiuntura in un jazz club di alto livello?
«Abbiamo il vantaggio di essere collegati, per buona parte dei programmi, con gli altri Blue Note che esistono a New York, Tokyo, Osaka e Nagoya, oltre che con i due grandi club di Londra, il Ronnie Scott e il Jazz Café che si differenziano dai Blue Note soltanto per i nomi. Quindi possiamo proporre artisti di spicco che altrimenti sarebbero irraggiungibili. Non abbiamo sovvenzioni pubbliche e non le abbiamo nemmeno cercate. Le consideriamo pericolose: dalle nostre parti basta che cambi il colore di un comune o addirittura un assessore allo spettacolo, e ti saluto. Vorremmo degli sponsor privati, ma l'impresa pare difficile. Comunque, euro più euro meno, i nostri bilanci tengono. Per rispondere pìù esattamente alla sua domanda, le dico che gli spettatori non sono diminuiti: mangiano e bevono meno per risparmiare, questo sì. I secondi set, quelli delle 23 o 23.30, registrano un aumento delle presenze dei giovani che approfittano di sconti fino al 40%».
Quali sono stati, secondo lei, i concerti migliori della stagione appena terminata?
«Quello del trio della pianista Geri Allen con Maurice Chestnut, un ballerino di tip tap sensazionale. E poi la contrabbassista e cantante Esperanza Spalding, il sempreverde pianista McCoy Tyner, il chitarrista Stanley Jordan, la bravissima cantante Sarah Jane Morris... ».


Può anticipare qualche nome per il 2009-2010?
«Siamo nel pieno delle trattative, quindi devo andarci piano. Posso citare Branford Marsalis, Tania Maria, Ahmad Jamal, Brad Mehldau, Marcus Miller, Steve Gadd... Speriamo bene».

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