Vi racconto il mio film scritto per Albertazzi

di Giancarlo Marinelli

Due anni fa, quasi. Allora come oggi; la pioggia. Incessante, quasi ingombrante; da giudizio universale.
Anch’io sono lì, in attesa di un giudizio e prima di suonare il campanello della casa immersa nel silenzio di un quartiere Parioli frustato dal vento, mi sistemo il collo dell’impermeabile, l’arruffo umido dei capelli, la fanghiglia innamorata della punta delle mie scarpe.
Mi apre una sua assistente, e seguo il sorriso di lei lungo il corridoio in penombra, disturbato appena da fogli e libri sparsi a terra, sui lati, come briciole lasciate da un bimbo che, prima di inoltrarsi nel buio, ha avuto la previdenza di segnare la via del ritorno.
Ora che stanno per iniziare le riprese, tra i Colli Euganei, il Delta del Po e Venezia, mi torna in mente la prima immagine che ho di lui, quando me lo sono trovato di fronte, stiracchiato con pigra inquietudine su una poltrona in velluto. Giorgio Albertazzi sembra davvero un bambino, trattenuto a forza dalla mamma in casa per colpa del maltempo; un bambino che ha bisogno della luce per giocare, per sognare. Per vivere.
Mi stringe la mano, accenna ad un sorriso, getta uno sguardo oltre l’ampia vetrata che fatica a trovare il rigoglio del giardino, graffiata com’è dagli scrosci selvaggi; adesso aggrotta la fronte come a dire: «Deve essere stato difficile per te venire fin qui. Ma per me è ancora più difficile restarci». L’impercettibile affondo degli occhi, lo scrollo divertito del capo, lo schiudersi improvviso della mano per raccogliere i fogli del soggetto del film che gli ho inviato; bastano questi tre semplici movimenti per dirmi che sì, di fronte ad un uomo così è naturale che ogni spettatore a teatro e ogni donna del creato gli siano caduti ai piedi.
«Il film che hai scritto mi piace - esordisce asettico, quasi senza emozione - la storia di un vecchio, che ha scelto di auto escludersi dal mondo per il suo passato nazista, andando a finire gli ultimi giorni della sua vita in riva al mare, lontano da tutto e da tutti e che riesce a recuperare la sua perduta capacità di amare e di essere amato, di ricordare e di essere ricordato, grazie all’incontro con la sua nipotina di dieci anni, mi sembra bellissima».
«Grazie» gli rispondo, con un soffio imbarazzato di voce.
«Però c’è un problema», frena il mio entusiasmo tendendosi appena verso di me.
«Quale?», mi incupisco d’improvviso.
«Non c’è dubbio che la bambina la faccio io. Ma per il vecchio a chi hai pensato?», si scioglie in una risata che contagia persino l’arroganza della pioggia, adesso più leggera.
La tensione si allenta; arrivano alla spicciolata i produttori del film, Andrea Biscaro e Franco Della Posta, il mio aiuto regia Massimiliano Gracili; il grande attore saluta tutti, poi ritorna serio.
Mi fissa, mi squadra come se si sforzasse di decifrare una lingua misteriosa, una creatura aliena.
«Voglio sentirla da te, dalla tua voce. Raccontamela di nuovo», mi chiede, anzi, mi ordina.
Mi sto giocando tutto. Dipende tutto da quello che gli dico, da come glielo dico. Come farti capire, Giorgio, che questo film è per te; solo per te? Di più, Giorgio; come farti capire che questo film è tuo? Che questo film sei tu?
«Una volta - incomincio - ho letto che un capo nazista è andato a fare un sopralluogo in un appartamento di Parigi dove i suoi soldati, poche ore prima, erano andati a prelevare tre ebrei: un vecchio e i suoi due nipoti di sette e nove anni. Non era stato facile portarli via; in particolare, i bambini fuggivano da una stanza all’altra e si erano talmente aggrappati al nonno, che i soldati non riuscivano a slegarli, a separarli. Il gerarca nazista ha raccontato che l’appartamento era pieno di specchi; ogni specchio era squarciato, crivellato dalle pallottole. I soldati tedeschi si erano a tal punto vergognati per quello che stavano facendo da non sopportare il riflesso delle loro immagini... ecco, Giorgio, io mi sono sempre chiesto; uno di quei ragazzi tedeschi, cinquanta anni dopo, tiene ancora uno specchio in casa sua? Uno di quei ragazzi, cinquanta anni dopo, riesce ad abbracciare e a portare tra le ginocchia la sua nipote di dieci anni? Uno di quei ragazzi, mezzo secolo dopo, può accarezzare un bimbo, una donna, un cane, senza sentire la tremenda paura di sporcarli, di contaminarli?».
Lui non mi risponde; ha tolto anche gli occhi dai miei; mi ha superato, sorpassato, come se le mie parole vivessero là fuori, oltre i vetri, oltre il giardino, da qualche parte; nella stanza risuona soltanto il respiro di Albertazzi. È un respiro profondo, ritmato, come un palpito di eccitata malinconia. Tipico di chi si sta innamorando. Tipico di chi sta dialogando con la parte più intima di sé.
«Mio nonno era fascista. Per il fascismo ha dato tutto - continuo - la sua giovinezza, il suo cuore, la sua famiglia. Suo fratello era un partigiano comunista. Per il comunismo ha dato tutto; la sua giovinezza, il suo cuore, la sua famiglia. Sono diventati nemici, si sono odiati, fino a disconoscersi, a denunciarsi a vicenda, a non salutarsi più. Entrambi hanno fatto la galera, entrambi si sono ammalati. Quando mio nonno è morto, suo fratello è andato a trovarlo. È entrato nella sua camera, ha visto il suo corpo in avaria, è rimasto lì per un istante. Poi è uscito, ha incrociato la moglie di suo fratello, mia nonna, e l’ha abbracciata. Mia nonna mi raccontava che è rimasto per un’eternità tra le sue braccia a piangere. Mia nonna mi raccontava sempre che quel giorno ha imparato che le lacrime raccontano più delle parole, e che in quel momento le hanno detto: “Nemmeno adesso che mio fratello è morto, io riesco a dirgli: Ciao, Marino”».
«Tu non vuoi fare revisionismi, improbabili riscritture della Storia - mi interroga Albertazzi -. Tu vuoi solo dare un’altra possibilità a quei soldati, a quei fratelli; è davvero questo che vuoi?».
«Sì».
«E perché vuoi me?».
«Perché tu sei il migliore».
Giorgio si alza. Lascia cadere a terra i fogli. È un buon segno: un bambino non lascia cadere le briciole su un sentiero che sa di non voler più ripercorrere.


«Va bene - sorride dolcissimo e si alza - lo faccio».
Poi volge lo sguardo verso i produttori.
«Almeno voi, ci avete pensato?», chiede ipnotico.
«A che?», replicano Andrea e Franco, disorientati.
«Insomma: chi fa il vecchio in questo film?».

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