“Vi dico cosa serve per fare il fotoreporter nell’era dei social”

Trovare una propria storia da raccontare, qualcuno che ci creda, promuoverla bene, puntando su qualità e formazione. Ecco la chiave per fare il fotoreporter

Foto di Valentina Tamborra
Foto di Valentina Tamborra

Oggi tutti fanno foto, le postano sui social e hanno una visibilità istantanea anni fa inimmaginabile. È più facile sfondare, ma la concorrenza è enorme. E a farcela non sempre è chi ha più talento. Valentina Tamborra - fotografa e giornalista, che si occupa principalmente di reportage e di ritratto - ci ha spiegato qual è la chiave per fare la differenza nell’era del successo a portata di click.

Nei tuoi ultimi reportage per InsideOver racconti le popolazioni artiche. Perché la storia di quei popoli lontani e antichi, in realtà, ci riguarda?
"In questo momento l’Artico è sotto i riflettori e tutti ne parlano. Quando ho iniziato a lavorarci, si cominciava a intuire che laggiù, in quel mondo così lontano stava accadendo qualcosa che ci avrebbe toccati tutti, perché l’Artico è il luogo dove il cambiamento climatico è maggiormente visibile. Quello che voglio fare è raccontarne l’identità attraverso chi lo popola. Nei miei reportage lavoro sulla memoria e sull’identità, che quando si parla di popoli di confine sono molto più difficili da ricordare, da trattenere. Io credo, invece, sia molto importante tenerne traccia perché sono vite, storie umane che ci riguardano tutti. I Sami, la popolazione nativa del Nord Europa a cui ho dedicato il mio ultimo lavoro, sono un popolo che ha lottato per vivere, per sopravvivere e per mantenere la propria identità, prima minacciata dai nazionalismi e poi dal cambiamento climatico. E questo ci riguarda, perché tutti noi lottiamo per salvare ciò in cui crediamo, la nostra memoria, le nostre tradizioni, la nostra realtà. Quando difendiamo la memoria di un popolo, in realtà stiamo difendendo il mondo stesso. In questo senso, non c’è alcuna storia che non meriti di essere raccontata e che non ci riguardi".

A breve il terzo capitolo Ahkát - Terra Madre, dedicato ai Sami, verrà condensato in una mostra durante il Festival fotografico europeo. Come si traduce un lavoro ampio in un percorso senza sacrificarne il senso?

"La mostra che si terrà a Malpensa Terminal 1 a partire dal 18 aprile al 30 giugno sarà un’anteprima nazionale, e ringrazio Luciano Bolzoni, Sea aeroporti e il curatore Claudio Argentiero per l'opportunità. Proprio perché è un’anteprima, scegliere come raccontare le immagini è un passaggio ancora più complesso. Che affronto insieme al mio fotoeditor Giuseppe Creti, che lavora con me dalla mia prima mostra. Insieme scegliamo le immagini e il percorso narrativo. L’editing è un momento delicato, quasi, passami il termine, una religione, perché bisogna arrivare all’osso della questione senza perdere il focus. Cosa che si riesce a fare trovando il giusto mix tra il racconto del luogo, dei soggetti e delle persone più rappresentative, quelle che in qualche modo incarnano il senso di tutto il lavoro. Serve un continuo confronto, prima di tutto con se stessi e poi con il proprio fotoeditor, che a volte ha quel ruolo terribile del dire: “Sì tutto bello, ma in questa foto non si vede”. Da lì, poi, nascono quelle discussioni infinite che, però, sono costruttive, perché si impara sempre qualcosa. Per me ogni lavoro si può fare perché ci confrontiamo con l’altro, e forse il reportage è fra tutti i generi quello più collettivo. Senza l’altro, dove l’altro è il soggetto, il luogo, il fotoeditor, l’editore chi crede in te, non puoi fare proprio niente".

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A proposito, hai potuto realizzare Terra Madre anche grazie al sostegno di InsideOver. Quanto conta, oggi, avere qualcuno che creda in te per produrre lavori in grado di arrivare?
"Avere qualcuno che crede in te è fondamentale. Aiuta ad attivare quel confronto costruttivo di cui parlavo prima. Serve a incontrare persone che credono nel tuo lavoro, ma anche a volte lo mettono in dubbio, sempre in maniera funzionale alla tua crescita personale e professionale. Per questo ringrazio immensamente InsideOver che ha creduto nel mio lavoro e ha contribuito a far sì che io potessi farlo. Chiunque voglia fare questo mestiere dovrebbe mettere in piedi un progetto sensato e portarlo in un posto così, dove c’è gente capace di ascoltare e di comprendere quando quel progetto può avere le gambe, dando i consigli giusti per migliorarlo. Chi dice che il reportage è morto sbaglia. Bisogna solo imparare a muoversi in modo nuovo rispetto a prima. Se si sa scrivere i progetti, si sta attenti ai bandi e ci si affida a realtà come InsideOver, questo lavoro si riesce a farlo".

Terra Madre
Uno scatto del reportage Ahkát - Terra Madre

Però, serve anche avere uno spazio per pubblicare e farsi conoscere. E se chi crede in te è anche una redazione cosa cambia?
"Avere una redazione che crede in te è una cosa meravigliosa perché comunque sai già che il tuo lavoro verrà pubblicato su una testata seria e autorevole, avrà una grande visibilità. Poi, nel caso di InsideOver, sia in italiano che in inglese e con più canali, dal testo alla foto, al video. Certo, ci sono anche altri mezzi, come le mostre, le pubblicazioni, ma per un reporter avere una relazione che crede in te è uno stimolo e un aiuto enorme".

Per promuoversi oltre agli spazi classici, dai mezzi d’informazione ai siti fisici di esposizione, ci sono i social. Tu che rapporto hai?
"I social sono strumento importantissimo, ma da maneggiare con cura. Poi, c’è una differenza tra chi nasce con i social e chi invece ci arriva dopo. Le nuove generazioni, che già li utilizzano da subito, conoscono dinamiche, trucchi, trucchetti. E quindi per loro è più semplice. Ai fini di una diffusione del proprio lavoro e della propria autorialità, al reporter viene richiesto sempre più di non stare soltanto dietro la fotocamera ma anche davanti. Oltre che di fare talk, convegni, apparizioni. I social fanno parte di questa grande macchina il cui scopo è quello di promuovere il proprio lavoro. Avere un social media manager sarebbe la scelta migliore, anche se non sempre sostenibile economicamente. Comunque, se bene utilizzati i social possono fare la differenza".

Ma sono anche un’arma a doppio taglio. Sui social spesso vince chi è più bravo a promuoversi invece di chi ha più talento?
"Sapersi promuovere, fare marketing è fondamentale per tutti i mestieri, non solo per fare il fotografo. E saperlo fare è un talento. Però, credo che se chi è più bravo a promuoversi sui social vince, bisogna andare poi a vedere cosa fa nella pratica. Per esempio, se vedo che un fotografo ha un milione di follower e se ne cerco i lavori non trovo né pubblicazioni di carattere giornalistico, né mostre o libri, allora si deve accendere un campanello d’allarme su quale sia realmente il lavoro di questa persona. Ci sono i creator digitali che producono contenuti interessanti, belli e che, però, non sono in grado di raccontare una storia come farebbe un reporter. Si tratta proprio di un altro tipo di figura. Alla fine, credo che vinca chi ha più qualità, chi produce un lavoro capace di lasciare il segno. Per cui il social è uno strumento utile se dietro c’è qualità, altrimenti prima o poi si finirà nel dimenticatoio".

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Oggi tutti fanno foto e le postano, avendo potenzialmente una visibilità anni fa inimmaginabile, ma la concorrenza è enorme. La chiave per farcela?
"Avere qualcosa da dire, da raccontare. E non è banale, perché la cosa più difficile per un autore è trovare un proprio tema, una propria grande storia da raccontare che finirà per essere riportata e declinata in ogni suo lavoro, in tutte le storie che andrà a raccogliere, determinandone in qualche modo l’identità. Solo quando trovi il tuo modo di raccontare, il tuo lavoro imbocca la giusta direzione. Io l’ho trovato anni fa nel confine, nelle storie di confine. E questa visione ha guidato e guida tuttora il mio lavoro".

E quanto serve la formazione per trovare la “propria storia da raccontare”?
"Credo che per chi vuole fare questo mestiere una guida sia fondamentale. Serve per trovare una direzione chiara e per non inciampare in quei piccoli tranelli dettati dall’inesperienza, in cui si cadrebbe se si facesse tutto da soli. Questo non significa che senza una scuola non si possa arrivare, ma ci vuole più tempo. Perché il confronto con i docenti e con gli altri che studiano con te ti permette di arrivare prima. Poi, ovvio, è necessario che gli insegnanti e i corsi siano di qualità. Oggi le proposte sono tantissime, io consiglio sempre di scegliere dei professionisti che più si avvicinano a quello che si vuole fare".

Oltre a fare reportage, sei specializzata in ritratti. Se dovessi fermare solo in uno scatto il mondo attuale, che soggetto sceglieresti?
"Io sono curiosa del mondo intero, con tutte le sue infinite fratture e attriti, noi tutti siamo delle millefoglie.

Invece di scegliere una soggetto, mi piacerebbe un giorno uscire in strada e fare un ritratto a tutte quelle persone, quelle realtà da cui i più distolgono lo sguardo. Per me questo è avere coraggio: non distogliere lo sguardo".

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