Daniele Bellocchio
da Maiduguri
C'è il Califfato: quello di Mosul, di Raqqa e di Al Baghdadi. Ma non solo. Anche altri gruppi jihadisti hanno infatti giurato la loro fedeltà allo Stato islamico, allargando così i confini dell'internazionalismo dell'orrore. E tra tutte le formazioni ce n'è una che ha abbracciato la guerra santa e l'odio per gli infedeli con una spietatezza e una violenza superiori persino a quella delle stesse bandiere nere medio orientali. Si tratta di Boko Haram, la branca nigeriana del Daesh, che ha fatto del Paese più popoloso d'Africa uno dei luoghi più dannati del pianeta.
Per comprendere l'orrore che si sta consumando nello Stato africano, occorre partire da Maiduguri la città che è la capitale spirituale della formazione jihadista. Boko Haram è nata qui, nel 2002, dalle predicazioni dell'imam Mohamed Yusuf. La traduzione in lingua hausa del nome del gruppo islamista significa «l'educazione occidentale è proibita» e questo già rivela l'identità della realtà terroristica che, attraverso proseliti e sermoni, ha attratto sin dalla sua nascita centinaia di adepti affascinati dalla prepotenza di predicazioni a favore di un'applicazione radicale della sharia. La setta di Yusuf si fece largo incanalando la rabbia dei giovani, ottenendo finanziamenti anche da parte di figure politiche, interne e straniere, e proseguì nell'opera di radicalizzazione sino al 2009, anno in cui Yusuf venne ucciso e la guida del gruppo fu assunta da Abubakar Shekau. Da quel momento la storia è nota.
La formazione passò dai sermoni alle esplosioni, attirò a sé combattenti della galassia del terrorismo internazionale e, in un climax ascendente di atrocità, alzò sempre più il livello della spietatezza, giungendo a mettere le bombe nelle chiese, nelle moschee, a giurare fedeltà allo Stato islamico, a rapire le studentesse del collegio di Chibok, sino a compiere l'efferatezza più atroce: impiegare i bambini come attentatori kamikaze. Uno degli ultimi drammatici episodi è andato in scena domenica 11 dicembre, quando due fanciulle di 7 e 8 anni hanno azionato la cintura esplosiva nel mercato di Maiduguri: proprio là, dove tutto ha avuto inizio.
I banchi degli ambulanti, sono affiancati da una strada che conduce sino a una spianata di sabbia bianca, dove si staglia una moschea. È qui, sui minareti che si alzano come canne di mitra puntate contro il cielo, che Abubakar Shekau vorrebbe veder sventolare le sue bandiere nere. Intanto, oggi, ai piedi del tempio, un'armata spettrale di questuanti, mossi dalla disperazione, si trascina da un angolo all'altro della piazza.
Il conflitto ha provocato un'ulteriore tragedia nel Paese: la fame. La crisi nutrizionale in Nigeria è divampata a causa della guerra che ha provocato oltre 2 milioni di profughi e 500mila sfollati: i morti sono più di 20mila, i danni sono stati registrati in 9 miliardi di dollari e, nel solo distretto di Maiduguri, le persone senza casa superano il milione. I campi sono incolti, il 40% delle strutture sanitarie nello Stato del Borno è distrutto ed è così che, in assenza di raccolti e di aiuti medici, la crisi nutrizionale è divampata. Leggendo le stime dell'organizzazione non governativa Medici senza frontiere, si scopre infatti che il 50% dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione acuta e che i tassi di mortalità infantile superano di quattro volte la soglia d'emergenza; ma, per rendersi conto di cosa effettivamente stia accadendo, basta spingersi all'interno dell'Inpatient therapeutic feeding centre della stessa Medici senza frontiere, nel quartiere di Gwange.
Tra le corsie delle tende da campo, allestite per ospitare i diversi reparti, si incontrano storie di dolore assoluto. Come quella di Sarat Suleiman, che ha due anni, è ammalato di tubercolosi, ha un'infezione ai reni e anela alla vita tra le braccia della madre. Nella branda accanto a lui c'è Mohamed Mustafà, che ha 7 anni e una cartella clinica che indica impietosa il peso: 14 chili. E poi c'è Umar, 7 anni, il corpo divorato dalla fame, in preda agli spasmi della malaria. La madre con amore appoggia una mano sulla fronte del figlio, il fratello lenisce con dell'olio le braccia e le gambe che la febbre continua a torturare con contrazioni violente e immediate. E a spiegare nel dettaglio la situazione è il dottor Pindar Wakawa, medical activity manager di Msf: «In città noi abbiamo tre sedi operative e questo è il centro nato per fronteggiare la crisi nutrizionale. Ogni mese accogliamo più di 300 pazienti e il nostro obiettivo è quello di aumentare i posti letto, almeno fino a 150 perché, con il crescere del numero degli sfollati, stanno aumentando anche i casi di malnutrizione. La mancanza di cibo indebolisce le persone e anziani e bambini sono i più esposti a malattie. Il rischio di epidemie è quanto mai concreto, anche perché una larga fetta della popolazione non ha ancora ricevuto le vaccinazioni basiche».
Ma il terrore non si limita al solo Stato del Borno: la guerra di Boko Haram ha contaminato tutto il centro-nord della Nigeria e anche a Kano, la città più popolosa del nord del Paese, dove il 95% della popolazione è di fede islamica, si percepisce il clima di guerra e paura che aleggia ovunque.
Gli uomini dell'esercito pattugliano ogni incrocio e ogni via durante la giornata; poi, con il calar della sera, si dissolve il traffico, si ritirano i commercianti e l'ultimo appuntamento per la popolazione sono le preghiere. Ma non c'è nessuna luce intorno alla piccola moschea di Masalatchi Malambaba e al termine della funzione nessuno si sofferma in strada: solo l'imam Juhnil Magagé, che racconta: «Non bisogna pensare che tutti i musulmani siano terroristi. Anzi, la Jihad perpetrata dai combattenti è contro i nostri principi e noi stessi, che predichiamo i veri insegnamenti del Corano, siamo vittime e bersagli di questo guerra del terrore. Guardatevi intorno, questo è il trionfo della paura». Tutti i vicoli che conducono alla moschea sono deserti, l'oscurità avvolge e travolge le strade, il silenzio inquieta e fa rabbrividire.
Ma, come la comunità musulmana, anche la minoranza cristiana vive assediata e con una minaccia di morte che incombe sulle proprie teste. Agli ingressi del quartiere cristiano sono posizionati sacchi di sabbia e blocchi di cemento, per proteggere dai colpi da arma da fuoco e dalle autobombe. Ransom Bello, vescovo protestante e portavoce di C.A.N. (Christian association of Nigeria), racconta: «Essere un cristiano a Kano signfica essere costantemente perseguitato» e poi incalza, dicendo: «Io non voglio generalizzare incolpando tutti i musulmani. Moltissimi sono vittime come noi e insieme puntiamo a creare un dialogo e un rapporto di pace; ma, finché esisterà Boko Haram, sarà difficilissimo. Molti fedeli hanno abbandonato questa città: io stesso sono stato minacciato di morte. Non so quando tutto questo finirà. Nessuno lo sa».
Bombe contro chiese cristiane il giorno di Natale, il giorno di Pasqua e anche la domenica. E così è anche a Jos, nel centro del Paese dove la comunità cristiana vive perseguitata e sotto il fuoco delle esplosioni di Boko Haram. La domenica mattina le vie d'accesso a qualsiasi chiesa della città vengono bloccate. Le macchine non possono avvicinarsi e uomini dell'esercito perquisiscono i fedeli e le vetture. Il perché di questa psicosi lo si capisce dal racconto di Peter Umoren, parroco della chiesa di St.Finbar's: «Stavo celebrando messa quando a un certo punto c'è stata un'esplosione. La gente correva versa l'uscita e c'era chi si precipitava verso l'esterno saltando fuori dalle finestre. Quando sono uscito mi sono reso conto di ciò che era avvenuto. Boko Haram aveva colpito con degli attentatori kamikaze. Una macchina con a bordo due uomini aveva cercato di entrare nel cortile della parrocchia ed è stato solo l'intervento dei volontari, che hanno chiuso il cancello d'ingresso, a impedire che gli attentatori potessero irrompere nell'edificio durante la funzione. Ma i due terroristi a bordo della macchina, si sono fatti comunque esplodere provocando la morte di quattordici persone». Tra le vittime dell'attacco anche Emmanuel Ndat Kanke.
Oggi, in sua memoria, si annoverano una lapide, quattro orfani e una vedova, Regina Emmanuel, che stringe una foto del marito tra le mani, con il volto solcato dalle lacrime e, forse, con la capacità di perdonare, ma non quella di dimenticare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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