Vicenza Jazz Con Holland un quartetto da brividi

Si è chiusa la quattordicesima edizione del JazzFest di Vicenza. Ha programmato nove giorni di concerti nei principali teatri della città e in altri spazi trasformati in palcoscenici. Così il Tempio di San Lorenzo, che ha ospitato la magia di un nuovo incontro fra i sassofoni di Jan Garbarek e il Quartetto vocale Hilliard, interprete sommo di musica antica e rinascimentale; e la Piazza dei Signori, che ha contenuto a fatica la folla accorsa per ammirare i Buena Vista Social Club.
Uno dei momenti di vertice delle «New Conversations» (è il sottotitolo del festival) è arrivato al Teatro Olimpico con il duo di John Zorn e Uri Caine, sax alto e pianoforte. È Zorn, in mezzora di improvvisazione solitaria, a superare se stesso e i limiti naturali dello strumento. Urla, dolcezze estreme, suoni sdoppiati, torsioni brutali e l’insopprimibile dolore del klezmer. Anche Caine suona da solo, bene come sappiamo, e pregevole è il duo. Ma quella mezzora resterà a lungo nella memoria dei presenti. Un figurone, malgrado la pessima sistemazione dello stage fra l’erba del Campo Marzo, fanno i dieci elementi della Unknown Rebel Band diretta dal giovane pianista Giovanni Guidi.
Qualche inattesa perplessità con la pianista Geri Allen, poco creativa e scollegata con Darryl Hall e Kassa Overall, contrabbasso e batteria. Ma la musica ha ripreso subito quota all’Auditorium Canneti con uno dei migliori gruppi di jazz oggi al mondo, il quartetto del contrabbassista Dave Holland con tre assi: il sassofonista Chris Potter, il vibrafonista Steve Nelson che sta oscurando i grandi specialisti del passato, e il batterista Nate Smith. Ripropongono liberamente temi in parte noti, però catturano l’attenzione ottenendo un clima da recital classico.


Altro momento importante il concerto della Mingus Dynasty, splendido settetto animato dal trombonista Frank Lacy che fa parte delle iniziative della vedova di Charles Mingus, Sue, presente in sala, per tenere desta l’eco dei capolavori del marito. La forza dei suoni mingusiani (Fables of Faubus, Open Letter To Duke) è tale da dare ai musicisti la giusta carica, e da comunicare l’illusione che l’indimenticabile compositore sia lì a dirigerli, senza farsi vedere.

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