Il vignettista nemico dei padroni che vive in un superattico

Ha una casa di 200 metri quadri nel centro di Roma. E grazie alla fama in tv ha costruito un mini-impero editoriale

Il vignettista nemico dei padroni che vive in un superattico

È un lutto lungo da elaborare, quello di Vauro Senesi. Rimasto orfano di Michele Santoro e delle fortunate apparizioni televisive sulla Rai e poi su La7, il vignettista più corrosivo e blasfemo d'Italia cerca a fatica nuove strade per non scomparire. Certo, gli manca quel gettone dorato ottenuto tramite «Michele chi»: mille euro lordi a puntata quand'era in Rai, che a fine anno facevano sui 35mila. Un gruzzolo mica male, roba che tanti operai non vedono nemmeno con il binocolo ma che al compagno Vauro possono servire, ad esempio, per mantenere la modesta dimora romana: un attico di 200 metri quadrati su due piani (quinto e sesto) in via del Viminale, tra il ministero dell'Interno e il Teatro dell'Opera.

Sì, sono soldi quelli di «Annozero» e «Servizio pubblico», ma alla matita più velenosa d'Italia non sono venuti meno gli altri introiti: le vignette sul Fatto quotidiano e il Corriere della Sera , i reportage da Africa e Ucraina, e soprattutto i libri. Vauro ne ha pubblicati una quarantina con diverse case, da Aliberti a Chiarelettere. Francesco Aliberti, fondatore dell'editrice che porta il suo nome e che è stata messa in liquidazione nel 2013 (tre milioni di debiti), è socio del Fatto e qualche anno fa ha tentato di rilanciare il Male , giornale satirico dove Vauro esordì; Chiarelettere è un altro dei principali azionisti del Fatto .

Tutto in casa, sembrerebbe, nel circuito chiuso che comprende il quotidiano di Travaglio, i suoi editori, Santoro. Errore. Perché i libri cui Vauro tiene di più, cioè non le raccolte di vignette ma i suoi romanzi, escono per i tipi di un'altra casa. Opere come «Storia di una professoressa», «Toscani innamorati», «Kualid che non riusciva a sognare» e i lavori scritti a quattro mani con l'inseparabile don Andrea Gallo, testi che magari non entreranno nella storia della letteratura mondiale ma hanno un certo successo di vendite, escono con Piemme. Gruppo Mondadori. Galassia Fininvest. Insomma, il Cavaliere è l'editore di Vauro, come di Roberto Saviano e Fabio Fazio. Un vero imbavagliatore, questo Berlusconi.

Non è dunque la grana che manca a Vauro, anche se Santoro è stato il suo Sant'Euro. È la visibilità, la ribalta televisiva, il far parlare di sé. Privo di Santoro, Vauro è un disegnatore senza carta, e per lui riciclarsi in tv è più difficile che per gli altri santorini come Sandro Ruotolo, Corrado Formigli e Giulia Innocenzi. Il teletribuno era uno scudo formidabile, parava i colpi come nessun altro. Attorno a Vauro aveva eretto una rete di protezione a maglie impenetrabili. Il vignettista satanico poteva dire e scrivere tutto ciò che voleva, poi provvedeva il soccorso rosso a tutelarlo. «La satira è partigiana, l'ho sempre rivendicato»: parole sue. Soprattutto quando puoi insultare e beffeggiare chiunque, dal Padreterno in giù, coperto dall'immunità televisiva.

La squadra di Santoro era fatta di intoccabili e chi provava a infrangere questo muro ne usciva a pezzi, come l'ex direttore generale della Rai Mauro Masi. Nel 2010 il dg tardava a firmare i contratti per Travaglio e Vauro ad «Annozero» (si mercanteggiava sulle cifre): così Santoro lo mandò a «vaffan...bicchiere» in diretta. Un'altra volta Masi tentò di bloccare la messa in onda del programma di Santoro: invano. E quando la Rai sospese Vauro per una puntata dopo una vergognosa vignetta sui morti nel terremoto in Abruzzo, il vignettista passò come una vittima innocente della libertà di stampa.

Il caso più clamoroso fu un'infamante vignetta contro Fiamma Nirenstein, oggi ambasciatrice di Israele in Italia ma al tempo (marzo 2008) candidata al Parlamento con il centrodestra. Vauro la raffigurò con il naso adunco, il fascio, il simbolo del Pdl, la stella di Davide cucita sul petto come nell'epoca nazista e la scritta Fiamma Frankenstein. Una caricatura antisemita che scatenò il finimondo. Con un corsivo sul Riformista Peppino Caldarola rispose ironizzando su una fantasiosa puntata di «Annozero» in cui immaginava che Vauro potesse uscirsene con uno «sporca ebrea».

Apriti cielo. Vauro querelò Caldarola e ne ottenne la condanna a un risarcimento di 25mila euro contro il parere del pm che aveva chiesto l'assoluzione. Sergio Staino, altro fumettista di sinistra e pure lui toscano, l'inventore di Bobo, definì «forcaiole» le vignette di Vauro. Il quale se ne compiace: «Sono felice quando il mio modo di fare satira viene criticato, troppo apprezzamento significa che qualcosa non va». Balle. Vauro in realtà s'imbufalisce. E alza i toni delle polemiche in modo che s'accorgano di lui pure quanti vivono sereni anche senza i suoi scarabocchi né «Servizio pubblico».

Negli ultimi mesi è stato un crescendo. Vauro ha moltiplicato le ospitate nei talk show, dove ha dato libero sfogo alle sue provocazioni caustiche cosciente che la lunga avventura all'ombra di Santoro era avviata verso un rapido epilogo. E sapendo bene che in Italia per la sinistra vale la libertà di insulto. Ad «Agorà» (Raitre) ha dato del razzista, fascista e istigatore all'odio a Matteo Salvini, che ha lasciato lo studio e annunciato querela: chissà come si troverà il disegnatore vestendo per una volta i panni della vittima anziché del carnefice.

A «L'aria che tira» (La7) si è scagliato contro Giorgia Meloni: «Se lei fosse messa in una caserma nuda con vicino delle guardie...». Ad «Announo» (La7) ha inquadrato nell'obiettivo Francesco Storace mentre si discuteva degli anni di piombo. «A me hanno sparato – ha detto l'ex governatore del Lazio – e ho avuto la fortuna che i tuoi compagni non m'hanno ammazzato». E Vauro: «La prossima volta gli dirò di mirare meglio». Risata in studio e poi il passo indietro inutile e tardivo: «Questa è ovviamente una battuta».

La retromarcia intempestiva è una delle specialità del disegnatore pistoiese. Vauro puntò l'indice contro le vignette danesi su Maometto perché «messaggi violenti provocano reazioni violente» salvo poi indossare davanti alle telecamere la maglietta «JeSuisCharlie» considerando martiri del terrore (ma guai ad affiancargli l'aggettivo «islamico») i colleghi che un tempo bollava come irresponsabili agitatori. Si pentì, a scoppio ritardato, anche di aver sottoscritto l'appello che nel 2004 chiedeva alla Francia la liberazione di Cesare Battisti, terrorista rosso. Allora Vauro era ancora al Manifesto .

«Quell'appello non l'ho firmato – ha detto sette anni dopo al Fatto , il giornale che l'aveva indotto ad abbandonare

il foglio comunista -. Un amico appose la mia firma, che io poi non ritirai per rispetto dell'amico». Firmò a sua insaputa. Vauro come Scajola: chi l'avrebbe detto. A quando un passo indietro anche dagli estremisti No-Tav?

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