"Vincerò", quell’acuto irripetibile un inno al suo piacere di vivere

A volte eccessivo, aveva una sbalorditiva naturalezza, una superba presenza scenica. Indimenticabili le sue prove nella "Bohème" e in "Rigoletto"

"Vincerò", quell’acuto irripetibile un inno al suo  piacere di vivere
È difficile scrivere che Pavarotti è morto. C’è, ancora più che un dolore, un rifiuto: è qualchecosa che somiglia a una contraddizione. Pavarotti è in noi strettamente legato alla vita, intriso di emozione, di dolore, di felicità. La sua sagoma da tenore d’un tempo, opulenta, la sua faccia da emiliano cordiale, la sua voglia di dilagare, canto, cavalli, amici, beneficenza, ci hanno accompagnato per anni, come un’emanazione di piacere di esistere, di comunicare, di vincere. E il suo dna irripetibile si rivelava su, in quell’acuto solare, che chiude l’aria Nessun dorma come una conquista di tutti noi: Vincerò.

Da una quarantina d’anni si studia e si analizza, si descrive la voce di Luciano Pavarotti. La definizione più accorta è quella, forse, degli studiosi, che ne hanno messo a fuoco il carattere di pienezza italiana, che permetteva ad un tenore dal carattere «lirico», adatto cioè a incantare con l’indifesa bellezza del timbro giovanile, e con la naturalezza generosa delle sillabe che nascono una dall'altra in quello che si chiama «legato», di affrontare anche parti drammatiche nate per emissioni meno trepide e di peso e sicurezza maggiori. Poteva fare rimbalzare i «do» acuti, di petto, come i nove vicini della Figlia del Reggimento di Donizetti, come affrontare spavaldo gli impeti ed i ripiegamenti di Governatore destinato alla morte nel Ballo in maschera verdiano. Ma la rivelazione più toccante nella sua ingenua, sincera quotidianità, mi è venuta forse da dietro il banco d’un bar milanese: un giovane stava facendo il caffè e raccontava a un amico: «Stamattina quando mi son svegliato ho acceso la mia radio, ho sentito la voce di Pavarotti che cantava e mi son subito detto: oh, ecco una giornata che comincia bene».

Un cantante d’opera può essere un semidio e anche un amico, un interprete grande o piccolo e una voce che risuona dentro a chi ascolta e vi resta indimenticabilmente. Pavarotti aveva una tecnica agguerrita, una tenuta credibile del personaggio che incarnava, tante altre doti. Aveva anche una naturalezza tale che la voce pareva dimorare nei regni della bellezza senza sforzo qualunque cosa intonasse. Ma nella sua natura c’era una specie di carisma segreto, che costringeva all’ammirazione ed anche alla complicità, alla voglia di fermare la corsa del tempo e abbandonarsi.

Molti di voi hanno sicuramente a casa dei suoi dischi. È quasi doveroso, oggi, per non lasciar fuggire le occasioni di capire la nostra storia nei momenti più intensamente toccanti, ascoltarne almeno un momento. Un incontro, un pensiero, un rito. Poi, chi vuole ed è più interessato al teatro d’opera, può tornare a discutere e valutare.

Sarà inutile sostenere che fosse un artista perfetto. Il suo solfeggio era qualche volta problematico, qualche colpo di glottide era eccessivo, gli capitava talora, per usare una frase di Barthes destinata a un attore, di attraversare un’opera più che d’interpretarla. In scena s’affaticava, data anche la stazza fisica e la sua scarsa congenialità con le diete; e se non era stimolato da regista, compagni e direttore, badava più alla suggestione del canto in se stesso che alle verità che avrebbe potuto offrire. Però la sua presenza era forte: quando entrava in scena Pavarotti il respiro del pubblico mutava.

Sapeva di non essere inattaccabile, alle critiche rispondeva con scioltezza, con ironia. Una volta ci trovammo d’accordo, il compianto e prestigioso studioso di canto Rodolfo Celletti ed io, nel rimpiangere certe sue indulgenze a qualche effetto, mai volgare, mai fuori stile, ma un poco distrattivo. Un paio di giorni dopo ci fece sapere che aveva sognato di ascoltare Celletti che cantava, accompagnato da me al pianoforte, e di essere seduto in una poltrona con un taccuino in mano, a scrivere la recensione.

In alcune opere era inarrivabile, voce e scena. La Bohème, ad esempio. Un ragazzone sognante che distilla parole emozionanti, allegro, malinconico, tragico. In un disco di tanti anni fa diretto da Karajan sembrava impersonare la Giovinezza in se stessa. Chi vuol sapere chi è Pavarotti, l’ascolti e capirà anche chi è Puccini. In un pomeriggio domenicale ascoltai una volta alla Scala l’ennesima replica di quest’opera diretta da Kleiber. Tutto poteva invitare alla routine, invece sentivamo sulla pelle i brividi d’un’ora irripetibile. Contro ogni abitudine andai nel suo camerino alla fine per dirgli qualchecosa.

Piangeva ancora d’emozione, mi contagiò e non ci dicemmo niente. Il Rigoletto, ancora. Una specie di Enrico VIII, da vedere: imponente, fiero, vincente, autoironico, fantasioso.

Bella figlia dell’amore, intonava, improvvisando una corte elegantissima alla già prezzolata Maddalena ed innescando uno dei più grandi quartetti della storia; e questo eccesso, questa necessità di dar bellezza nativamente quasi senza perché, univa indissolubilmente la fatuità del Duca di Mantova libertino e la libertà di vincere col canto del tenore italiano.

Oggi chi ama il canto è in lutto, ed anche chi è sordo alla grazia sente che un grande ha chiuso la sua giornata mortale.
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