La "vita breve" ma indimenticabile del comico Savinio

Arriva ora la ristampa di una preziosa selezione inedita non solo di quegli scritti apparsi su Omnibus, ma anche su La Stampa e Il Tempo

La "vita breve" ma indimenticabile del comico Savinio
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Il nome di Alberto Savinio fa pensare al Surrealismo, alla pittura dei due fratelli De Chirico Savinio era nome d'arte - alla musica, alla drammaturgia. Dal 1937 al 1939 fu però anche critico teatrale per la rivista Omnibus, il settimanale di Leo Longanesi che ebbe appunto quei due soli anni di vita. Su quelle pagine Savinio aveva una rubrica, «Palchetti romani», scritta sì con totale adesione al clima visionario che Omnibus offriva ai lettori, ma anche con il carattere che lo contraddistingueva: elegante ironia e onirismo come antidoto all'ideologia. Arriva ora la ristampa di una preziosa selezione inedita non solo di quegli scritti apparsi su Omnibus, ma anche su La Stampa e Il Tempo, raccolta in un libretto antologico dal titolo Il comico ha vita breve (Succedeoggi Libri, pagg. 112, euro 12). Si tratta, come racconta il curatore Nicola Fano nella sua prefazione, dei testi dedicati da Savinio alla comicità nelle sue varie declinazioni teatrali: «Savinio era uno spettatore teatrale attento e appassionato, egli stesso uomo di palcoscenico, sia pure in quanto regista lirico» spiega Fano. «Per questo riuscì a cogliere con precisione la forza della comicità teatrale». Ne risulta, condensata in poche pagine, una «breve storia della comicità popolare italiana»: Savinio infatti qui affronta spettacoli che hanno a che fare con le varie forme del comico - dal varietà alla rivista, dall'avanspettacolo alla farsa - e con protagonisti di popolarità eccezionale. Volendo sorvolare sul supremo gusto che danno le battute di Savinio a coronamento di quelle descritte nei suoi pezzi come parte delle pièce, vi è un fascino in questi scritti che va sottolineato, impensabile oggi: l'estrema libertà con cui l'autore esercita il proprio ruolo recensorio.

Savinio ha contezza di tutto e nessuno sfugge al suo gioco verbale: né i De Filippo (Eduardo «in sé raduna secoli di comicità e di tragedia», Titina è «una cugina a cui avremmo affidato i nostri risparmi») né Macario («Tombolotto, occhi tondi, guancette rosse e casacchino da Tunìn figlio di Gianduja... Quello che Macario fa non è molto, ma è saporito e casalingo. Che più? Non ci sono azzimature in lui, eleganze, novecentismi.

È un soldato che mangia alla gavetta, e coi soldati noi ci sentiamo in confidenza»), non Govi («Spettatore, per singolare che tu sia, verrà la volta che anche te ti specchierai nella faccia di Gilberto Govi») né Nino Taranto - splendida la descrizione indignata della sua «epopea del cornuto» né tantomeno Wanda Osiris, dal «riso di cavalla». Comicità sinistra o solitaria, isterica o velenosa: Savinio ne ha per tutti i registri, in righe fulminanti, che fanno venir nostalgia di schiettezza e autonomia critiche forse perdute per sempre.

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