La vita è un gioco d'azzardo. Storia di Albino Buticchi tra petrolio, Milan e poker

Il figlio bestsellerista Marco fa i conti con la figura del padre: un'avventura italiana di successi e fallimenti

La vita è un gioco d'azzardo. Storia di Albino Buticchi tra petrolio, Milan e poker

Nell'estate del 1969 Namar II era appena giunto a Porto Cervo, in una banchina sulla quale fervevano ancora i lavori di costruzione. Poco distante c'era l'imbarcazione sorella, posseduta da Karim Aga Kahn. I due «giganti» costruiti da Baglietto dominavano con la loro mole il porticciolo. Anche alcune delle case del borgo stavano per essere ultimate, in quell'angolo di paradiso sorto dal nulla per volere di un gruppo di imprenditori. La Costa Smeralda era agli albori e sulle spiagge o tra i vicoli di Porto Cervo non era raro incontrare personalità di spicco del mondo della finanza e dello spettacolo.

Quel giorno, terminato l'ormeggio, mio padre scese a terra per godersi un gelato al dirimpettaio Caffè del Porto. Lungo il cammino gli si fece vicino un giovane dall'aria cordiale e dai modi gentili.

«Mi scusi, signore», gli disse il giovane in un perfetto italiano con una piacevole cadenza inglese, «lei si trova bene con i motori Carraro?»

Albino gli rispose con altrettanta cortesia e i due chiacchierarono piacevolmente di pistoni e cilindri, filtri dell'olio e asse d'elica dei motori marini. Ne sapevano parecchio, a giudicare dalle informazioni che si scambiarono nel corso di quell'incontro casuale. Alla fine si salutarono amichevolmente e Albino raggiunse gli ospiti che lo aspettavano al bar. Il proprietario del locale lo trattò con estrema deferenza e lo chiamò perfino per nome pur non avendolo mai conosciuto. Albino, lusingato da quell'accoglienza, gliene chiese il motivo.

«Gli amici di Sua Altezza vanno sempre trattati con un occhio di riguardo», rispose il gestore.

«Sua Altezza?»

«Karim Aga Kahn, signor Buticchi, il presidente del Consorzio Costa Smeralda. Vi siete appena salutati come due vecchi amici.»

«Vuol dire che quel signore era...?» disse Albino incredulo. «Accidenti, vestito così da mare non l'avevo proprio riconosciuto.»

Aveva appena stretto la mano a un principe, capo di un impero finanziario ed economico internazionale. Uno tra gli uomini più potenti al mondo. Ripensò al freddo lungo la Napoleonica, alle mattine in cui si recava in cantiere a scaldare chiodi, al carro con i bidoni del latte che tintinnavano, alle carrozze del padre Alfredo, ed ebbe un moto di comprensibile orgoglio.

Da quella volta lui e il principe si incontrarono ancora. Ma non parlarono di motori. Qualche tempo più tardi Albino acquistò la sede degli uffici del Consorzio Costa Smeralda, un gigantesco attico sulla piazzetta di Porto Cervo, una tra le case più suggestive in uno dei luoghi più esclusivi del mondo.

Caratterialmente mio padre non era un mondano, ma il mondo patinato spalancava le porte dinanzi alla sua spessa corazza di vincitore: nelle sue belle case non era raro imbattersi in personaggi del mondo della finanza e dello spettacolo. Per noi ragazzi era quasi normale cenare con star di Hollywood, attori di grido, magnati del petrolio o sportivi nel pieno della carriera. Spesso mio padre raccontava loro le sue umili origini. Non ho mai capito se facesse questo per rendere i suoi interlocutori partecipi del suo orgoglio o per giustificarsi se, in quel mondo così effimero, si sentisse a volte come un pesce fuor d'acqua.

Una sera d'estate Walter Chiari, amico di papà di vecchia data, venne ospite da noi con Ginger Rogers, la grande star del musical. Memore dei suoi volteggi al fianco di Fred Astaire, mi aspettavo d'incontrare un'avvenente bionda ancora tutta curve e agilità. La signora che mi trovai di fronte era di una simpatia strabiliante, ma aveva poco a che vedere con la ballerina capace di segnare un'epoca e tanti cuori. Riflettei su quanto veloce fosse stato il passaggio dal fiore della bellezza a quella pur splendida vecchiaia. Capii che le immagini avevano contribuito a falsare le mie aspettative, immortalando per sempre la Ginger Rogers che tutti conosciamo, mentre il tempo, inesorabile, era scorso senza sconti per nessuno.

Nel mondo dello sport, mio padre aveva stretto una sincera amicizia con Artemio Franchi, capace dirigente, da anni al vertice della Federazione italiana giuoco calcio. Fu Franchi, forse per distoglierlo dai problemi dovuti alle beghe legali con Ivana Ferri, che insistette affinché si recasse in Messico al seguito della Nazionale italiana ai mondiali del 1970. Quell'esperienza fu indimenticabile per l'Italia intera e fu proprio nel corso di quei mondiali che papà maturò una ferrea amicizia con il beniamino dei tifosi: Gianni Rivera. Appena terminato il campionato del mondo, quello della famosa semifinale Italia-Germania (4-3), molti dei calciatori azzurri arrivarono a Lerici, invitati da mio padre. Da quella volta Gianni Rivera e Roberto Rosato vi trascorsero molte altre vacanze ancora.

Al di fuori del mondo degli affari, l'ambiente del pallone era quello che più gli si confaceva. In gioventù, da presidente dello Spezia Calcio, aveva imparato che, per rivestire incarichi ai vertici di una squadra, bisognava essere competenti, impulsivi, assolutisti, appassionati, facoltosi e in possesso di una buona dose di spregiudicatezza. Di ognuna di queste caratteristiche lui ne aveva da vendere. E, prima o poi, capita il momento per far fruttare al meglio ogni esperienza vissuta.

***

L'attaccamento che lo legava all'ambiente marino era indissolubile: mio padre era un giramondo, frequentava personaggi dello sport, della finanza e dello spettacolo nei luoghi più esclusivi ma, ogni volta che si tuffava nelle acque azzurre del suo golfo, sembrava rinascere. Per questo cercava di non restare mai troppo lontano dalle sue radici. Come ogni marinaio, sapeva che il modo migliore per apprezzare il mare è solcarlo nel silenzio, spinti dalla sola forza del vento.

Fu nel corso del 1970 che commissionò al prestigioso studio londinese Laurent & Gilles il progetto di un panfilo a vela che avrebbe fatto epoca.

Si trattava di un ketch in legno di ventidue metri. L'albero di maestra era alto quasi trenta metri, diciassette la mezzana. La barca fu costruita dai Cantieri Beconcini della Spezia, famosi per annoverare tra le loro maestranze i migliori maestri d'ascia del Mediterraneo. Quando l'imbarcazione fu ultimata, tutti ebbero modo di ammirare le sue linee leggere e filanti che sembravano contrastare l'imponenza di un veliero di quelle dimensioni. Mio padre lo volle chiamare Cadamà, in onore del piccolo borgo affacciato sul golfo in cui era nato, una «casa di mare» galleggiante...

Appena varato il veliero, papà era indeciso se vendere o meno lo yacht a motore: conosceva i tempi della vela, incompatibili con quelli del suo lavoro. Il mercato, poi, per un'imbarcazione dalle dimensioni del Baglietto Minorca che possedeva, non offriva molti compratori. Forse, si disse, sarebbe stato meglio aspettare tempi migliori.

Ci pensò, tuttavia, la sua maledetta passione per il gioco a risolvere ogni dubbio. Ogni tanto quel demone riemergeva all'improvviso. Quella sera, a bordo del Namar II ormeggiato a Montecarlo, si erano riuniti attorno al tavolo alcuni facoltosi imprenditori milanesi.

«Per un pokerino tra amici», si erano detti.

Ma il gioco conosce pochi amici.

Poco dopo l'inizio le puntate erano già a livelli altissimi. Albino non era in serata e si barcamenava in un sostanziale pareggio, al prezzo però di grandi rischi.

Le mani si avvicendavano senza che avvenissero scontri di una certa consistenza.

Albino aprì lentamente le carte che gli erano appena state servite dal giocatore alla sua sinistra: doppia coppia di re con dieci.

Rilanciò sulla prima puntata, due dei quattro giocatori diedero forfait. Sia lui che lo sfidante rimasto, il mazziere, cambiarono una sola carta. Lentamente, dal ventaglio, spuntò il piede di un terzo re: Albino aveva full. Calcolò rapidamente le possibilità di vittoria. Avendo scartato un asso, era convinto che sarebbe stato imbattibile. Rilanciò e l'avversario aumentò il suo rilancio sino all'ultima fiche della posta.

Albino era certo di averlo in pugno e azzardò: «Non ho più fiches, ma se accetti mi gioco questo yacht. Vale 150 milioni di lire».

«Vedo», disse l'altro coprendo la puntata con un assegno.

«Full di re», disse Albino, praticamente certo di aver vinto.

L'altro posò sul tavolo, con movimenti studiati e una lentezza estenuante, un poker di nove.

Albino sentì l'adrenalina sciogliersi lungo gli arti, le gambe divennero di burro. Ma non fece una piega. Un giocatore deve saper perdere dignitosamente.

L'indomani scese dalla sua ex barca al mattino presto e si allontanò dal porticciolo di Montecarlo a bordo di un taxi.

Marco Buticchi

Longanesi & C. © 2016 Milano. Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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