"Vivo e vegeto, per fortuna. Gli 'anti' sbagliano sempre"

Intervista a Luciano Pellicani: il politologo spiega i vantaggi del mercato e critica i suoi nemici, dalla Chiesa medievale ai no global

"Vivo e vegeto, per fortuna. Gli 'anti' sbagliano sempre"

Sono passati parecchi anni. Non è facile raccontare l’uomo con cui hai studiato, discusso la tesi di laurea, con i tuoi mercanti medioevali e la sua società aperta. Questa è una questione personale. Sono domande allo specchio. Luciano Pellicani è burbero come sempre. Ma c’è un vantaggio a parlare con lui: ti fa ancora sentire giovane. E poi questo libro non è come gli altri. È qualcosa che ti accompagna da sempre, una strada che riconosci, una finestra dove riconosci parecchi incroci. Il professore insegna ancora sociologia alla Luiss. Il saggio che ha davanti si chiama Anatomia dell’anticapitalismo (Rubbettino, pagg. 322, euro 20).

I nemici del capitalismo non finiscono mai. Magari cambia la «Eh già. La sostanza in fondo è sempre la stessa: il capitalismo è il trionfo di Mammona. Il denaro come sterco del demonio. E ogni volta

Il mercante come usuraio, uno che ruba il tempo a Dio. Si comincia da qui?
«Lo sa chi è stato il primo a dire che la proprietà è un furto?».

È un’interrogazione?
«San Giovanni Crisostomo. La stessa che poi ritroviamo in Rousseau, nei giacobini, in Proudhon e in Marx».

Non c’è solo il denaro, professore. Tutti quelli che attaccano il capitalismo tirano in ballo la giustizia.
«E lo fa anche Crisostomo. E dal suo punto di vista non aveva neppure tutti i torti. Viveva in una società chiusa, statica. L’economia era sempre un gioco a somma zero. Non c’era incremento. Se qualcuno faceva profitti vuol dire che altri perdevano. Tutto quello che prendo l’ho rubato».

Ma tutto questo non funziona più nei comuni medioevali. Qui la società si apre. Il mercante non ruba, ma crea ricchezza. «In un’economia dinamica il gioco non è a somma zero. Il profitto può arrivare da una crescita di tutto il sistema. È questa la forza del capitalismo. Il fattore che i suoi nemici non considerano mai. I miei nonni vivevano in un mondo meno produttivo del mio. Erano contadini e li ricordo quando tornavano a casa stanchi, dopo una giornata di lavoro dall’alba al tramonto. Guardavano due uova al tegamino e pensavano che era il massimo a cui aspirare. Il capitalismo ci ha fatto più ricchi».

Il mercato è etico?
«Non sa neppure cosa sia l’etica. È neutro. Ma ogni altro meccanismo di redistribuzione della ricchezza si è rivelato più ingiusto. L’eguaglianza diventava arbitrio».

Chi salva dei maestri dell’anticapitalismo?
«Non salvo e non condanno. Mi affascina la schizofrenia di Marx. Nessun filosofo ha scritto, come ha fatto lui nel Manifesto, un’esaltazione così accorata del capitalismo e della borghesia. La tanto odiata classe borghese sviluppa le forze produttive che permettono di parlare di socialismo e libertà».

L’ultimo anticapitalismo?
«Il pensiero no global».

Professore, anche lei è stato anticapitalista.
«È vero. Ero convinto che la proprietà fosse un furto. Ma poi ho incontrato un libro. Ha mai sentito parlare di Bruno Rizzi?».

Da lei.
Era un antifascista. In Francia, da rifugiato, scrive nel 1939 La burocratizzazione del mondo. Ma la firma, per motivi di sicurezza, solo come Bruno R. Poche copie e la maggior parte finiscono al macero o distrutte. Una però arriva a Trotsky in Messico, che ne parla nei suoi ultimi saggi. Solo che nessuno sa chi sia questo Bruno. L’arcano viene svelato da Pierre Naville nel ’47. Mi metto alla ricerca del libro e dell’autore. Lo trovo nel ’77 e riesco a far pubblicare il saggio. Paolo Flores D’Arcais fa un pezzo sull’Espresso dove lo racconta come il Gilas italiano.

Mi telefona Rizzi e mi dice: sbrigati a far uscire il mio libro, non reggerò a lungo. Tre giorni dopo muore. Non fa in tempo a vedere nulla».

Cosa c’era in quel libro che le ha fatto cambiare idea?
«Non c’è libertà politica senza libertà economica».

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