Il voltafaccia di Violante: dopo gli attacchi a Caselli ora scarica anche Borrelli

Il «padrino» politico della stagione giudiziaria ora prende le distanze dal pool

Stefano Zurlo

da Milano

Il segnale che qualcosa si era rotto era arrivato già in agosto. Giancarlo Caselli, un’icona della sinistra giudiziaria, aveva travolto con la sua indignazione tutto l’emiciclo, dalla Casa delle libertà all’Unione: «Si oppongono a indagini su di loro», per questo c’è «un filo comune» sul problema «della questione morale e sui rapporti fra politica e magistratura». Luciano Violante gli aveva risposto, pubblicamente, per le rime: «Credo che quello di Caselli sia un giudizio sbagliato». Una sconfessione a suo modo clamorosa, mai registrata in precedenza. E condita da un appunto tanto ovvio quanto insidioso: «Anche i magistrati, laddove sono criticabili, vanno criticati».
Appunto. Solo che se a dichiararlo è Violante, ovvero colui che per una lunga stagione è stato additato come il capo della sinistra giustizialista e giacobina, allora si può dire che un tabù è caduto. Poteva essere un fatto isolato, anche se da non sottovalutare dato il lungo, ferreo rapporto che lega da sempre i torinesi Violante e Caselli, ma l’altra sera Violante si è ripetuto. Ha impugnato il piccone e questa volta ha colpito con gesto sacrilego la statua del kaiser di Mani pulite, Francesco Saverio Borrelli, dieci anni fa uno degli uomini più potenti d’Italia. L’occasione è un dibattito su Tangentopoli, moderato davanti alle telecamere di Rainews 24 da Pierluigi Diaco. Violante conversa con Bobo Craxi. Craxi ricorda la rottura avvenuta nel ’92 nella società italiana e spiega che lui, sul piano giuridico, è già stato risarcito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: Strasburgo ha condannato l’Italia per il modo in cui furono condotti i processi contro Bettino Craxi. Craxi padre non poté difendersi fino in fondo.
Violante ascolta, senza obiettare. Poi sviluppa il suo ragionamento: «Non credo alla lettura secondo la quale gli uffici giudiziari seguivano un teorema politico. Piuttosto, c’era il pregiudizio nei confronti dei partiti, ma era un pregiudizio della società italiana. Nel periodo tra il ’92 e il ’94 - prosegue l’autorevole esponente dei Ds - furono commessi degli errori». E chi li commise? Sorpresa: la testa di Borrelli rotola, ghigliottinata da poche affilate parole. «Borrelli ad un certo punto parlò di consenso e questa è una cosa pericolosa: un magistrato non deve parlare di consenso». Dopo Caselli, anche Borrelli va giù dal piedistallo. «La politica - aggiunge il capogruppo dei Ds alla Camera - era talmente fragile che non riusciva a distinguere gli avvisi di garanzia fondati da quelli infondati. Bastava che arrivasse una qualsiasi comunicazione giudiziaria per far dimettere un sottosegretario o un ministro. Fu un errore». Bobo Craxi osserva con un filo di sconcerto quella sorta di autocritica strisciante, anche se mai esplicita. «Certo - aggiunge ora Craxi - io non sono il biografo di Violante ma non gli ho mai sentito pronunciare frasi del genere». Resta la domanda: dov’era Luciano Violante dodici-tredici anni fa, quando a cadere nella polvere erano i Craxi, i Forlani, gli Andreotti? Le cronache dicono che in realtà da settembre ’92 a marzo ’94 era seduto su una poltrona eccellente: quella di Presidente della Commissione parlamentare antimafia. Un crocevia strategico e, secondo alcuni, battistrada della Procura di Palermo nella stagione di Giancarlo Caselli e dei grandi processi politici.
Giulio Andreotti ha alluso proprio a Violante come ad un possibile ispiratore del processo di Palermo. E i suoi avvocati si sono chiesti come mai Violante avesse girato alla procura di Palermo, che non aveva alcuna competenza in materia, una lettera in cui si accostava indirettamente Andreotti al delitto Pecorelli. Storie ormai in archivio. «Il morto non deve afferrare il vivo», ripete Bobo che non intende restare prigioniero della (sua) storia con i suoi livori, i suoi torti e le sue ruggini. Violante però corre in avanti. E sembra addirittura prendere le distanze da quei mesi ingombranti e squillanti.

Perché queste picconate al mito? Poi il leader diessino scivola su quel passato: «Noi socialdemocratici», afferma ad un certo punto. «Quando noi parlavamo di socialdemocrazia - replica Craxi - voi vi gingillavate con Breznev». «No, non era Breznev». «Sì - chiude Bobo - doveva essere Cernenko».

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