Il voto belga/Ma non sparate sugli autonomisti

La notizia del risultato elettorale in Belgio viene data da gran parte dei giornali con evidente imbarazzo: qualcuno minimizza, altri la relegherebbero volentieri in cronaca nera, in molti la trattano come un fastidio che avrebbero preferito evitare. Pochi cercano di analizzare davvero le motivazioni della vittoria dei separatisti fiamminghi, in troppi ne danno una lettura solo economica e una inestinguibile genia di saputelli la liquida come la solita scalmana estiva di un razzismo impossibile da estirpare. Indicativi di quest’ultima depravazione patologica sono i riferimenti alle simpatie filo naziste del padre del leader nazionalista. L’essere stato «amico di Hitler» è la postmoderna versione europea dell’aver «parlato male di Garibaldi» del Tecoppa. Si ricorda con sdegno che alleati dei tedeschi sono stati gli indipendentisti bretoni, gli ustascia croati, i baltici e che anche gli irlandesi qualche pensierino l’avevano fatto. Si glissa invece sul dettaglio che fra i sodali del Führer si sono trovati anche tutti gli indipendentisti dell’Europa Orientale, in prima fila i musulmani di Bosnia e del Caucaso, il mondo arabo pressoché al completo e, a un certo punto, la stessa Casa Madre sovietica. Ma soprattutto si evita di considerare che quando si vuole scappare di prigione non si guarda troppo per il sottile su chi ti passa la lima o aiuta ad abbattere le mura della cella, poco importa se gli puzzino le ascelle o se sia egli stesso il peggior avanzo di galera.
Certo, nel caso fiammingo, non si tratta di evadere da un carcere ma di far valere quelli che si ritengono i propri diritti di comunità, e infatti i fiamminghi non si affidano a impresentabili compagni di letto (presenti solo nella mala fede di certi commentatori), ma utilizzano il più sacrosanto dei diritti, quello dell’autodeterminazione, cavalcano il più nobile degli strumenti di lotta pacifica: la volontà e il consenso della gente.
Se la maggioranza o una fetta significativa della comunità decide di voler cambiare legge, Paese o bandiera ha tutto il diritto di farlo: si chiama democrazia. Purtroppo viviamo in un tempo e in un posto in cui l’informazione è in larga parte gestita, dietro il paravento del «politicamente corretto», da una conventicola tenuta assieme da stinte ma resistenti convinzioni ideologiche e da precisi interessi. Per costoro solo le scelte popolari che vanno nella direzione «giusta» sono da considerare democratiche, tutte le altre sono manifestazioni di insano populismo, quando non addirittura di follia reazionaria o di bieco razzismo. Che bravi i Tamil che se ne vogliono andare dallo Sri Lanka, che infami i fiamminghi che vogliono lasciare il Belgio! I Kosovari vanno bene, Catalani e Baschi no!
In realtà dietro l’aplomb o il nervosismo di gran parte dei commentatori si nasconde un preoccupato retro pensiero: si parla di Belgio ma si pensa all’Italia. In un momento in cui ci si aggrappa a tutto, dalla crisi economica ai mondiali di calcio, per esorcizzare pericoli e afflati federalisti, per ritardare le riforme e per rinvigorire un patriottismo piuttosto anemico, questa storia belga cade proprio male e rischia di dare vigore alle aspirazioni autonomiste di casa nostra. Era già successo con i «cattivi esempi» della Slovacchia e di una bella fetta di comunità ex sovietiche ed ex jugoslave: si è dovuto allora fare ricorso a tutto il repertorio di omissioni, menzogne e di descrizioni di ecatombi vere o inventate per calmare le paturnie autonomiste attorno al Po.

Questa per loro proprio non ci voleva, e si dovranno tirar fuori dagli armadi tutte le icone patriottiche, fare davvero un bel centocinquantesimo se si vogliono salvare l’unità della patria e della sua cassa. Ma attenzione: più si allungano le code di paglia, più si accorcia la pazienza della gente.

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