WÖLFLI Il mostro del bosco accanto

Era senza esagerare un gigante. «Un montanaro peloso e incredibilmente virile, tutto pantaloncini e deltoidi», ne scrisse Julio Cortázar dipingendo l’immenso Adolf Wölfli nella sua tenuta abituale: braghe al ginocchio, bretelle e maniche rimboccate sulle braccia possenti. Ed era sul serio un temibile orco. «Un primate fuori posto perfino nel suo villaggio di pastori», proseguiva l’argentino nel suo Giro del giorno in ottanta mondi. Ma doveva esserci qualche rapporto tra la sua costituzione da energumeno grande e grosso come un armadio a due ante e la proporzione della sua opera in prosa, l’autobiografia fantastica scritta sulle centinaia di fogli che egli stesso rilegava con le sue manone e che, impilati uno sull’altro, superavano i suoi due metri di statura.
Era un vero genio e un matto vero. Ma doveva intercorrere una qualche relazione tra l’estro che lo indusse a disegnare calligrafie alla Apollinaire e cartografie in scala reale alla Borges, a rifare l’arte primitiva prima di Picasso e a riciclare etichette Campbell’s prima di Warhol, a mescolare parole straniere come Joyce e Rabelais e a contaminare la sua lingua con il dialetto, come Gadda e Céline, a comporre filastrocche come Lewis Carroll, usare l’alfabeto per annotare suoni a tempo, le note musicali per decorare lo spazio... Tra tutto questo doveva esserci un nesso col ghiribizzo che gli fece staccare con un morso il labbro superiore di un infermiere. O con le fantasie che, più d’una volta, lo spinsero nel bosco in cerca di una ragazzina - d’età compresa fra i 14 e i 5 anni - cui sollevare la gonnella.
Sfuggì alla condanna per tentato stupro, per molestie e pedofilia, il mostro svizzero: un tipaccio fuori da tutti gli schemi presto dichiarato fuori di testa dal medico bernese che lo internò nel manicomio cantonale di Waldau. Ma l’aberrante omaccione - che, nato il 29 febbraio dell’anno bisestile 1864, era venuto al mondo sotto una stella esorbitante e in un giorno eccedente di norma i calendari -, anche rinchiuso nel reparto agitati, riuscì a dare alla propria esplosiva energia un’espressione folgorante. Folgorati restarono i grandi che ne videro la realizzazione: ininterrotta dal giorno in cui, scrive ancora Cortázar, «a uno psichiatra venne in mente di offrire una banana allo scimpanzè: sotto forma di matite colorate e fogli di carta», fino alla morte avvenuta nel 1930.
Thomas Mann evocò nella Montagna incantata «il delinquente pluriomicida, uno dei cosiddetti bruti o belve in sembiante umano, che aveva coperto di poesie le pareti della sua cella». Rainer Maria Rilke scrisse di lui all’amica Lou, invitandola a «incoraggiare i sintomi della malattia, perché suscitano il ritmo con cui la natura si riappropria dell’alieno per strumentarlo in una nuova melodia». André Breton lo disse «uno dei tre o quattro artisti più straordinari del ’900». Convincendo Michele Mari, che pure stenta a credere - «non può essere esistito» - al personaggio di cui ci presenta un indimenticabile ritratto nella prefazione al libro su Arte e follia in Adolf Wölfli (Alet, pagg. 234, euro 20, traduzione di Alessandra Pedrazzini). A riprova che, invece, era tutto vero, c’è la firma dell’autore, Walter Morgenthaler, lo psichiatra svizzero che ebbe in cura il folle artista e di lui ci fornisce tutto quel che c’è da sapere e da vedere: dati biografici, referti medici, verbali processuali, appunti autografi, fotografie impressionanti, riproduzioni di dipinti strabilianti...
Anche Cortázar, negli anni Sessanta, lesse il libro del medico, ma «neppure in traduzione francese» gli parve «molto intelligente». Ne prese però tutto quel che c’era da prendere: «È pieno di buona volontà e di aneddoti. Ed è questo l’importante, visto che adesso l’intelligenza saremo tutti noi a mettercela». Ma in fondo il dottor Morgenthaler aveva fatto il suo dovere.

E quando a Berna, nel 1921, scriveva «questo materiale psichiatrico si propone di presentare la personalità del nostro malato per far luce su questioni che nei soggetti sani sono ancora oscure», non arrivava a conclusioni troppo diverse da quelle del geniale argentino. Che nel 1967 a Parigi sentenziava: «Wölfli eseguì un’opera perfettamente delirante che potrebbe essere consultata con profitto da molti di quegli artisti che per qualche ragione continuano a essere in libertà».

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