Walter, orgoglio e incubo dell’Unione

Calciofilo, kennediano, per primo si disse «non comunista». Dall’«Unità» ai duelli con D’Alema. L’ascesa del vero leader di sinistra

Luca Telese

E così, da oggi, Walter Veltroni cessa ufficialmente di essere un problema di Gianni Alemanno, per diventare la croce e la delizia del centrosinistra, l’orgoglio e l’incubo dei baby boomers dell’Unione, suoi coetanei come Piero Fassino, Francesco Rutelli, Massimo D’Alema, carichi al pari di lui di ambizioni governative e no. Walter Veltroni, con il suo 60 virgola esce ufficialmente dal suo spazio ecumenico, sincretico e capitolino per entrare ufficialmente nell’agone della competition. Fino a ieri era facile almanaccare come in un gioco la molteplicità delle sue identità e la sua teorizzazione del consenso totale, da Alberto Michelini e le sottane dell’Opus Dei a Nunzio D’Erme e le frange dei no global, cittadini per Veltroni, disobbedienti per Veltroni, cattolici per Veltroni, esercenti per Veltroni, moderati per Veltroni, ci mancavano solo i «fascisti per Veltroni», come ha ironizzato Marcello Veneziani, e poi all’appello non mancava nessuno. Ed è stata la sua, ovviamente, una campagna extrapolitica, metapolitica, la campagna di un sindaco un po’ ministro e un po’ sacerdote, quello che faceva sorridere perfino Daria Bignardi, alle «Invasioni barbariche» spiegando che era appena stato a visitare un «centro anziani» e si stava recando a visitare dei bambini in ospedale. Era un termometro della sua extrapoliticità anche quella malattia ambivalente, il «calcolo» (renale) che lo sottraeva al duello e gli regalava un’aura di angelicità. Meravigliosa la battuta di Gianni Alemanno «quasi quasi mi faccio ricoverare in una stanza accanto alla sua».
Il punto più alto dell’iconografia era stato il messaggio in videocassetta, Veltroni mostrava la sua debolezza, esibiva una chioma scarruffata, un incarnato ancora più pallido e una specie di veste da camera che lo rendevano più simile a Billy The Kid che un primo cittadino del terzo millennio. E così, occorre ricapitolare qualcosa di questo personaggio che si è andato costruendo nel tempo, radicandosi nell’immaginario collettivo come il più post dei post della sinistra italiana, l’unico post.
Veltroni dice «non sono mai stato comunista», e quel che conta non è che questa affermazione sia vera (in parte non lo è), ma che quando lo dice tutti gli credono. Massimo D’Alema non riuscirà mai a togliersi di dosso la polvere delle Frattocchie e la foto seppiata del ragazzino che portava i fiori a Togliatti, Piero Fassino è sempre indissolubilmente legato alla sua immagine di uomo Facis e di apparatchnik pop-brezneviano, Veltroni è l’unico di quelli che vengono dalla storia del Pci a essersi costruito un’immagine nuova e diversa. Aveva iniziato quasi un secolo fa, con i suoi libri e i suoi slogan, mentre imperava la seriosità lui scriveva «Il calcio è una scienza da amare», mentre gli altri compulsavano i filosofi marxisti, lui mobilitava il cinema italiano al grido «non s’interrompe un film, non si spezza un’emozione» per combattere le interruzioni pubblicitarie sul piccolo schermo. Mentre la sinistra si interrogava sulla terza via, lui, da direttore dell’Unità, distribuiva una settimana gli album della Panini e l’altra i tascabili dei Vangeli. Per citare altri due slogan: «Il bisogno del sacro» e «Ti manca Pizzaballa?». E poi era quello di «Forse Dio è malato», per citare il suo libro sull’Africa e su Korogocho, o «Il disco del mondo», sul jazzista ribelle e suicida Luca Flores.
Il suo breve periodo in segreteria della Quercia nel 2000 era stato un esperimento riuscito a metà, impiantare una nuova cultura sull’asse tradizionale socialdemocratico, far convivere l’I care di don Lorenzo Milani con la cittadinanza di Norberto Bobbio e i concerti world degli Inti Illimani. Veltroni era stato rigettato, così come era accaduto anche ai tempi del duello contro Massimo D’Alema per la segreteria, quando lui aveva vinto la consultazione nella base, e l’altro si era garantito la maggioranza blindata tra i dirigenti. Nel 1998, Micromega aveva lanciato una provocazione, due pezzi paralleli, «Perché vincerà D’Alema», firmato da Curzio Maltese, e «Perché vincerà Veltroni», affidato alla penna di Massimo Gramellini. Gramellini spiegava che avrebbe vinto Veltroni perché non era buono affatto, perché era un rullo compressore, perché aveva un’idea precisa di dove andare. Oggi forse si capisce che Massimo D’Alema resta un generale di tante battaglie e di nessuna vittoria, mentre Veltroni è il fondista che, pagando qualche arretramento tattico, non ha mai deflettuto dal suo obiettivo, che è fregare tutti gli altri.
Fino a ieri insomma, il veltronismo poteva essere ancora considerato una variante locale, un sapore eclettico, il prodotto di una grande e immensa città-Stato. Ma da ieri non è più così, dentro la città-Stato, dentro quella che Veneziani chiama Romaset, dentro il tempio dell’Auditorium, tra attori, cantanti, palchi di periferia e notti bianche, è nato un prototipo che è fatto apposta per correre verso Palazzo Chigi. Per anni Veltroni ci ha raccontato che, finito il suo secondo mandato (questo), se ne andrà in Africa. Ormai tutti sanno che, se anche passerà di lì, la prossima tappa non potrà che essere la premiership.

Ed è per questo che il sindaco di Roma ha mantenuto un legame ferreo con Romano Prodi, e si è rifiutato di sostituirlo quando D’Alema e Fassino avevano accarezzato l’idea di buttarlo nella mischia al posto di Prodi. Veltroni si prepara a raccogliere ora quello che gli altri gli volevano elargire. Se sarà il primo post che diventa neo, per Fassino, D’Alema e Rutelli sarà l’ora della pensione anticipata.

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