Weegee, il Caravaggio della fotografia

Negli scatti di uno dei più grandi fotoreporter del Novecento la vita (e la morte) quotidiana nella New York degli anni ’30-40

Il destino mi ha portato davanti alle fotografie con uno spirito diverso da quello con cui se ne percepisce il valore di documento o di rappresentazione estetizzante, tanto diffusa, quando mi trovai, agli inizi degli anni Settanta, a seguire i corsi universitari di Italo Zanier e poi a diventarne assistente. Con lui e con Daniela Palazzoli, mi trovai così curatore della grande mostra Venezia 79. La fotografia concepita di intesa con Cornell Capa, il fratello del mitico Robert. Non ci poteva essere migliore condizione per capire l’essenza della fotografia come interpretazione della realtà, misurandone gli avvicinamenti attraverso personalità seducenti e insolite.
Tra queste, tra i grandi fotografi intendo, la più forte e la più autentica, in senso assoluto, mi parve subito quella di Weegee. Un di più di vita, di energia, tanto più travolgente perché la fotografia è votata alla morte, alla testimonianza di attimi, situazioni, modi di essere perduti. In particolare, Weegee, frequentando luoghi del delitto, si imbatteva spesso in morti. Ma nulla è più febbrile, più animato del luogo dove è accaduto un incidente, si sono avvicendate persone interessate e altre indifferenti, diversamente coinvolte o chiamate per necessità della situazione. Weegee non perde nessuna componente del mondo variegato e mobile, al centro del quale si trova non per scelta e volontà. Ciò che gli interessa sembra rapire ogni residuo di vita negli imprevisti teatri che si confondono nella realtà: uomini dormienti in sale d’aspetto, ubriachi, barboni sotto i cartoni; persone sopravvissute a un incendio, bambini spaesati e genitori sconvolti.
Weegee non vuole documentare, non vuole denunciare. Semplicemente constata. E verifica le condizioni di disagio, sia esistenziale sia sociale. Per questo gli interessano gli emarginati: i neri, i barboni, gli immigrati. Ma anche, molto, gli assassini e gli assassinati; oltre ovviamente a quelli che si trovano al centro delle disgrazie. E poi gli piacciono i curiosi, quelli che non c’entrano, gli spettatori. Weegee predilige la notte al giorno, perché la notte è misteriosa, popolata di apparizioni, perché nella notte si compiono più facilmente i delitti.
Per lui il mondo è un luogo di sorprese. Non avrebbe mancato l’immondizia a Napoli, dandocene un resoconto indimenticabile, così come ha fatto con lo scenario di indicibile sporcizia della serie di fotografie sulla fine di un pic-nic. Tra i rifiuti si agitano molte persone indifferenti, anche ben vestite, ma sono marginali, sono comparse rispetto al dominio dei rifiuti. Lo attraggono alluvioni, terremoti, fughe di gas, incendi. E sempre ne intende la dimensione esemplare. Così ciò che resta dell’area di un luna park dopo l’incendio evoca la catastrofe delle Twin Towers. Weegee è attratto dalle reazioni individuali a catastrofi collettive, e osserva inosservato. È difficile che i suoi ritratti guardino in camera. Sono sempre sorpresi mentre vivono un’esperienza, in qualche misura sorprendente. Anzi, si può dire che, intendendo la realtà come un fenomeno naturale, come una pioggia o un temporale, Weegee non abbia mai fatto un ritratto e che i suoi personaggi, per lo più anonimi, anche quando firmano autografi, siano protagonisti di situazioni imprevedibili che non volevano o non pensavano di essere fotografati, che si trovavano lì, dove anche il fotografo non avrebbe mai pensato di essere, testimoni o, meglio, curiosi di un omicidio, di un incidente, accalcati dietro le transenne. Weegee è infinitamente curioso e, nel guardare, vede anche quello che passerebbe inosservato, e gli dà la forza di un archetipo, come la forma di un automobile ridisegnata da un manto uniforme di neve. Morti coperti da lenzuoli, corpi dormienti sotto una coperta di sacco, manichini hanno, oltre l’apparenza, un’animazione segreta. È questa singolarissima proprietà che rende le fotografie di Weegee la testimonianza più viva dell’umanità nella sua condizione primigenia anche nella società più evoluta, anche nell’America degli anni Quaranta. Weegee si muove con la curiosità di un antropologo che studi una popolazione sconosciuta, documentandone costumi e atteggiamenti. Tutto ciò che osserva appare mai prima visto; eppure è lo scenario della quotidianità attraversata da entusiasmo, sconforto, disperazione, euforia.
E Weegee anima anche le cose: una scarpa sotto la ruota di un’automobile, l’insegna di un negozio, la carcassa di un camion dopo un incidente. Il singolare risultato è l’equilibrio tra l’effetto candid camera, come se la macchina fotografica riprendesse a prescindere dall’occhio che lo orienta, e il fortissimo carattere personale, di gusto, di sensibilità, di compiacimento che Weegee imprime alle sue immagini.

Un procedimento che, in letteratura, ricorda quello di Giovanni Verga, probabilmente del tutto ignoto a Weegee e applicato al mondo più lontano che si possa immaginare rispetto alla metropoli in cui si muove il fotografo. Ma così è: testimoni oggettivi, impassibili e appassionati, tanto da impedirci di osservarli distratti. Tutto ciò che Weegee vede riguarda anche noi.

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