Zlatan, il genio senza cuore che fa assist solo a se stesso

di Beppe Di Corrado

Zlatan mastica una gomma, forma una pallina con i denti, la sputa verso il suo piede, comincia a palleggiare, poi la calcia verso l’alto, la riprende in bocca e ricomincia a masticare. È facile o difficile? «Divertente». Punto.
Ibrahimovic è un genio strafottente. Gioca per se stesso prima che per gli altri. Forse fanno tutti così, solo che lui lo fa con meno pudore. Giusto, sbagliato, boh. Non ci sono risposte certe perché dipende sempre dal risultato: quelli come Ibra fanno vincere le partite da soli, poi si sciolgono all’improvviso, allora disegnano il loro destino mediatico su quest’altalena pallonara. Ora Zlatan è giù, senza spinta e senza voglia, senza grinta. Dice e non dice. Sa di essere decisivo e sa anche che non sa stare in un posto più di un po’. Ci sono calciatori che non riescono a essere odiati neppure dagli avversari, altri che finiscono per essere sopportati persino dai compagni e dai tifosi. Ibra sta qui e se non fosse il migliore non potrebbe campare. Parla degli altri senza paura, con quella punta di presunzione che fa parte della sua vita come del suo naso. Allora «Zidane è stato molto più forte di Platini», «Cassano è più pericoloso di Totti». Nemici? Dice che ce ne ha già tanti. È un modo d’essere, d’apparire, di vivere: a più persone sta sulle palle, meglio si sente. È Al Pacino di “Scarface”: «Volete fare la guerra a me? Allora state facendo la guerra con il migliore (...). Volete uccidermi? Vi ci vuole un esercito per uccidermi».
Contro, invece che con: contro come nell’ultimo Inter-Lazio, quando ha zittito la curva con un gestaccio. Contro come quando se ne è andato dalla Juventus che stava per retrocedere. Ibra ha cervello, classe, potenza, ma non cuore. Non si lega, non si affeziona, non si intenerisce. Esiste lui. Il Barça è campione d’Europa e lui è convinto che lì farà e vincerà di più che in Italia. Non c’è altra ragione o spiegazione. Zlatan va dove lo porta l’individualismo e non necessariamente i soldi. Non mente, almeno. Non si nasconde dietro una moglie o dietro una scelta di vita. Non ha bisogno perché sa perfettamente di essere uno dei cinque giocatori più forti del mondo, perché è cosciente che lo vuole chi cerca un attaccante che cambia il calcio, che lo rivoluziona, che lo trasforma nell’uno contro tutti. Gol, assist, spettacolo, forza, classe, sfida, botte, veleno. Vince perché è forte, tecnico, potente, furbo, infame. Perché è il pallone, lo tocca, lo accarezza, lo ammaestra, lo comprende, lo scarica in porta. Non accetta la sconfitta. Quella personale, ovviamente. Perché quella di squadra è solo un ostacolo a un disegno profondamente egocentrico. Ibra sa tutto e mette ogni cosa al suo servizio. Non ha padrini e non vuole padroni, così si dimentica spesso di chi l’ha fatto diventare quello che è: la gente. Per Zlatan equivale a zero, forse di meno.
Non si fa amare, non ama. Non si fa adorare, non adora. Ajax, Juventus, Inter, Barcellona, per lui è tutto la stessa cosa. Anaffettivo e antiromantico: toglie l’ipocrisia, annulla il sentimentalismo. Il giorno della presentazione all’Inter, con la maglietta nerazzurra in mano, con un sorriso così, con Oriali e Branca e Moratti accanto, eccolo lui: «Da piccolo tifavo per l’Inter. Sono arrivato in una squadra molto forte, il mio futuro è qua. Sono stato molto professionale, ho rispettato il mio contratto ma alla fine si è presentata questa occasione e siamo rimasti tutti contenti, io, l’Inter e anche la Juve. Questo è il calcio, dovevo pensare al mio futuro e il mio futuro è qui. Mi dispiace per i tifosi juventini, ma la vita continua». Irriconoscente o professionista estremo, non ci sarà mai una risposta.

Ci sono i gol e le giocate. Chi se le godrà e chi le rimpiangerà, poi anche ai primi toccherà il destino dei secondi. Fino alla fine, fino al triplice fischio. Fino alla prossima dichiarazione: «Io sono Ibra e vivo alla giornata».

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