Dedico questo mio settimanale dossier a un tema che non è specificamente economico, e cioè al presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. In realtà Napolitano c'entra moltissimo con l'economia italiana e il suo attuale stato comatoso. In due sensi. Uno perché, a suo tempo, nel 2011, ha consentito che potenze finanziarie estere usassero l'arma dello spread per arricchirsi, impoverendo l'Italia. Il secondo perché come dicono i francesi tout se tien, la vita di un popolo è quella di un organismo vivente, e se si colpisce il corpo in un punto ne risente l'intero soggetto. Si chiama approccio olistico ai problemi, ed è quello che ai politici e agli economisti insegnano i bravi medici. Essi guardano la persona. Sanno che una malattia determina scompensi in tutti gli organi. Così Napolitano, gestendo la politica italiana a prescindere dal voto popolare e anzi contro di esso, ha deformato la vita pubblica, iniettando in essa la propria ideologia di comunista sempreverde, contribuendo alla gravissima debolezza del nostro Paese in ogni settore. Perché c'è una legge inesorabile: dove la democrazia è soffocata, la prosperità viene meno, la sicurezza si sfalda, il prestigio internazionale deperisce. E se in Italia oggi non viviamo in una democrazia, con le conseguenze appena citate, lo sceneggiatore, produttore e regista di questo tragico-reality è soprattutto lui. L'offuscamento delle virtù repubblicane, la spaccatura che ancora adesso lacera il nostro tessuto politico e sociale, ha il profilo inutilmente maturo di questo letterato napoletano cooptato quasi settant'anni fa da Togliatti con lungimirante crudeltà stalinista.
Non sto accusando Napolitano di essere un uomo senza princìpi: purtroppo li ha, e sa implementarli con una capacità straordinaria di trasformare i suoi progetti di raffinato sabotatore della democrazia in atti conseguenti, credendo lui stesso e facendo credere che coincidano con il bene comune.
Qualcuno dirà: non è giusto caricare un signore tanto anziano di simili responsabilità, ha 91 anni, lascialo stare. A una grande personalità come il capo dello Stato emerito non farò il torto di trattarlo come un pugile a riposo. È un avversario eccezionale e tale lo considero quale in effetti è: nella pienezza della forza intellettuale e manovriera. Lo sta dimostrando. Pochi giorni fa la sua intervista a tutto campo sul Foglio non è una disquisizione da vecchio saggio, ma un formidabile programma per imbrigliare ancora una volta la democrazia italiana, lusingando con promesse di cartapesta dorata Forza Italia e i moderati. Napolitano prefigura la vittoria del Sì, in realtà non credendoci, infatti attacca Renzi perché ha personalizzato troppo il quesito. E generosamente si offre come garante di un nuovo Patto, che dalla legge elettorale (da modificare, bontà sua) si sviluppi in tutti i settori, dall'economia, alla sicurezza, alla politica estera, dando il compito di fare proposte in tal senso al Partito democratico.
Non ci siamo capiti: oggi non siamo in democrazia, e chi l'ha soffocata e ne ha imbalsamato il cadavere fingendo fosse viva, non è credibile in nessun senso.
Per capirlo, basta stracciare il velo di finzione che ancora adesso sta avvolgendo le vicende italiane dal 2011 a questa parte. A titolo di scatola ricordiamo come esempio l'immortale documento che è la prima pagina del Sole 24 Ore del 10 novembre 2011: «FATE PRESTO», un appello ai golpisti, perché piazzassero in fretta il loro pallido caudillo, Mario Monti.
Golpe? La tesi non è un'invenzione del Cavaliere o dei berlusconiani, ma essa trova fondamento nel giudizio del filosofo forse più autorevole d'Europa, il tedesco Jürgen Habermas, mente lucidissima della sinistra, che ha chiamato quel che è successo da noi «a quiet coup d'Etat», un tranquillo colpo di Stato. Timothy Geithner, ministro del Tesoro di Barack Obama, ne ha raccontato le premesse nel libro delle sue memorie The stress. Due «officials» dell'Unione Europea si fecero portavoce di una richiesta che arrivava dagli alti vertici. Far cadere Berlusconi.
Giorgio Napolitano che ruolo ebbe? Dal Quirinale lasciò che tutto accadesse, permise - in combinato disposto con Magistratura democratica, giornaloni e Rai che si stringesse la morsa per spingere Berlusconi alle dimissioni. Il capo del governo, per il bene del popolo, che l'avrebbe pagata se il premier avesse resistito con un'aggressione speculativa spaventosa contro il nostro debito di Stato, preferì farsi fucilare, per così dire, che provocare sconvolgimenti e sommosse.
Ho scritto queste cose in un libro edito dal Giornale, «Berlusconi deve cadere». Tutto vi è documentato. I tentativi ripetuti di Napolitano di determinare la caduta del premier legittimo. Prima convincendo Fini ad ammutinarsi insieme ai suoi seguaci. Fallito questo primo assalto, il Quirinale si mosse su un triplo piano. Preallertò Monti, in singolare coincidenza con la vendita dei Buoni del Tesoro da parte di Deutsche Bank. Intanto dall'Alto Colle si provvide a sensibilizzare una dozzina di deputati del Pdl pronti a dare vita a un governo Tremonti, con tanto di ministeri già promessi. Quindi lasciò che Berlusconi si recasse al vertice di Nizza, primi di novembre 2011, con un pezzo di carta senza valore. Alla fine, non riuscendo Francia, Germania a Nizza a commissariare l'Italia, per l'indomita resistenza di Berlusconi a cui Obama dette ragione, fu Napolitano a far osservare a Berlusconi che se non se ne andava lui, a rischiare era l'Italia. Ponendogli davanti il fatto compiuto di un Monti pre-designato alla sua successione.
Monti non voluto da nessuno volle tutto ciò che voleva Merkel: il nostro impoverimento. Monti riuscì. Compiendo la sua missione, a candidarsi allo scopo confessato di impedire la vittoria del centrodestra nel 2013. Dopo di allora, visto il risultato senza vincitori delle elezioni, Napolitano provvide a farsi trovare pronto a sostenere la causa della pacificazione nazionale con un governo di larghe intese. In tal modo fu riconfermato anche col disgraziato consenso del Pdl, che credette a questa sua promessa. In realtà il governo Letta nacque squilibrato a sinistra, senza un programma concordato, rifiutando cioè la lezione della Grosse Koalition tedesca, dove non ci sono soci senior e soci junior, e ognuna delle 187 pagine di intenti fu sottoscritta da Dc e socialdemocratici.
Nei due anni della sua reiterata presidenza Napolitano ha avallato senza battere ciglio l'abbattersi contro Berlusconi di una condanna pilotata politicamente e la successiva decadenza votata dal Senato. Quindi ha osservato con simpatia la trappola del Nazareno. Avallando le promesse da marinaio di Renzi, salvo premiarne la slealtà. Da semplice senatore a vita, ha sostenuto in ogni modo, travalicando il suo ruolo tuttora istituzionale, la riforma di cui peraltro è coautore, come del resto dell'Italicum.
Adesso, vedendo che Renzi zoppica, secondo la sua consuetudine, lo consegna volentieri al deposito dei suoi limoni spremuti. E propone, dopo il sì al referendum, un nuovo patto del diavolo, da lui ovviamente amministrato, centellinato, gestito, avvelenato.
Propone la pace, per fare la guerra, ed eliminare chi è ostile ai suoi disegni di comunismo non conclamato.
Giorgio Napolitano, a cui auguro lunghissima vita, resterà sempre un ossimoro vivente. È la condizione kantiana trascendentale del mantenimento dell'Italia in uno stadio infelice di golpe infinito.
Per questo, anche quando sembra avere decorose e persino eleganti proposte, generose e favorevoli per tutti, bisogna diffidarne. Mi vengono in mente due motti di antica saggezza romana. Uno riferito a Napolitano e l'altro al referendum che coincide con Renzi. O forse sono interscambiabili.
1) Timeo Danaos et dona ferentes (diffida dei greci anche quando portano doni). 2) Delenda Carthago (qualunque cosa accada, di qualunque cosa si parli, come diceva Catone in Senato, il primo compito è distruggere Cartagine).