Risolto il giallo del tesoro Inca in via Brera: il gallerista aveva ragione e rivuole le opere

Risolto il giallo del «tesoro Inca». I legali della galleria d'arte Moshe Tabibnia, Marcello Elia e Massimo Penco, chiariscono punto per punto la provenienza dei reperti archeologici precolombiani, il cui possesso è rivendicato dallo Stato del Perù. Contestando, in quanto non corrispondente al vero, l’articolo comparso venerdì 8 aprile 2011 (Il Giornale, Milano cronaca, pag. 50) rivelano così nuovi dettagli sulla vicenda, che documentano quanto attestato dallo stesso Gip, che nel luglio scorso ha prosciolto l’esperto d'arte dall'accusa di ricettazione perché il fatto non sussiste. In primo luogo perché, come scriveva il magistrato, «il Tabibnia ha immediatamente e documentalmente dimostrato che la provenienza dei manufatti sequestrati era palese, trasparente e riferibile a ordinari (nonché tradizionalmente accreditati) canali commerciali». Tanto è vero che, prosegue il Gip, «per tutti i beni in questione, gli indagati hanno comprovato la loro puntuale tracciabilità». I reperti (più che di «tesori» si tratta in realtà opere d’arte tessile comunemente presenti sul mercato antiquario) sarebbero cioè stati acquistati nel 2005 a San Francisco, nel corso della mostra «Tribal Art Show», come di consuetudine per la galleria antiquaria leader nel settore che, operando da decenni in questo ambito, tratta opere provenienti da tutto il mondo. Non è dunque inusuale che oggetti di questo genere si trovino esposti nelle sale di via Brera a Milano.
Una vicenda iniziata nel settembre 2008, quando la Procura ha inviato le forze dell’ordine nella sede della galleria, con l’ordine di sequestrare le opere d’arte e consegnarle al consolato del Perù. Una scelta in qualche modo definitiva, in quanto le sedi diplomatiche sono inviolabili. Da quel momento quindi anche se il processo avesse dimostrato, come di fatto è avvenuto, che il conoscitore non aveva commesso alcun reato, nessuno avrebbe più potuto costringere il Perù a riconsegnare le opere.
E così è stato: da quasi tre anni i tessuti precolombiani si trovano nel consolato e nessuno può fare nulla affinché la galleria ne rientri in possesso. Neppure lo stesso Gip, che già nel novembre 2008 aveva ordinato al consolato di riconsegnare le opere d'arte. Ma il Perù si era opposto, osservando che la legge 804 del 1967 stabilisce che le forze dell’ordine non possono entrare nelle sedi consolari per nessun motivo, e quindi nemmeno per sequestrare dei beni. La stessa Cassazione, nell’ottobre 2009, ha poi confermato la richiesta del Gip, ma ancora una volta invano. Tanto che nel marzo scorso l’esperto ha presentato un atto formale di denuncia, per chiedere al Perù di restituire i reperti. Come sottolineano gli avvocati Elia e Penco, l’ordinanza con cui il Gip chiedeva al consolato di riconsegnare le opere tessili dimostra che il loro assistito è dalla parte della ragione.
Anche per quanto riguarda il fatto che, secondo il governo di Lima, le opere d'arte sarebbero state esportate illegalmente dal Perù, il giudice ha osservato che «il denunciante non è in grado neppure di ipotizzare quando sarebbe avvenuta tale illegale esportazione.

Si può quindi dire che possano essere uscite dal territorio andino in un lasso di almeno cinque secoli, e cioè quando non solo non esisteva alcuna normativa a tutela delle esportazioni di beni archeologici, ma neppure c’era ancora lo Stato del Perù». E concludeva il magistrato: «Non si può certo pretendere che il Tabibnia si trasformi in un investigatore, per risalire a tutta la catena» di scambi attraverso cui le opere sono giunte fino a lui.

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