
Verbale di Marco Costa, capo della squadra che aggredì Sergio Ramelli. «Verso la fine del quinto liceo io comprai la chiave inglese, che poi tenni ancora quando arrivai all'università (...) Io accettai di partecipare al servizio d'ordine, ero contento di stare con questi ragazzi. Uno dei nostri doveri era quello di allenarci, facendo parte del servizio d'ordine e un paio di volte lo facemmo, ma era una scusa per stare insieme e giocare a pallone. Un paio di notti al mese bisognava andare in sede, perché si temevano aggressioni dalla parte opposta e serviva essere pronti a intervenire».
«Circa dieci giorni prima del 13 marzo incontrai Roberto Grassi (capo del servizio d'ordine di Democrazia proletaria, poi morto suicida, ndr) e lui mi chiese se ce la sentivamo di fare un'azione di antifascismo, cioè di picchiare una persona. Non si era mai verificata una proposta simile, in questi termini, per me. Gli dissi: Ne parlo con gli altri. E così feci. Ne parlai con gli altri in tutta una serie di incontri, nessuno di noi voleva partecipare a questa aggressione perché era la prima volta, non ce la sentivamo. Però c'era anche un forte stimolo a rispondere alla richiesta di Grassi. Se avessimo disubbidito ci saremmo sentiti in difficoltà verso gli altri compagni. E quindi dicemmo: Non lo vogliamo fare emotivamente però razionalmente sentiamo che dobbiamo farlo».
«Due o tre giorni prima del fatto il Grassi a Fisica mi mostrò le fotografie, in queste fotografie c'era questo ragazzo che era Sergio Ramelli. Io presi la macchina, andammo in via Amadeo con la Brunella (Colombelli, ndr), lei mi disse guarda lì è dove in genere appoggia il motorino. E quindi ormai sapevo dove era questo posto (...) Il giorno dell'aggressione ci raggiunse Grassi dicendoci fate alla svelta perché il ragazzo sta per uscire dal bar. Andammo nell'auletta di Biologia dove c'era una borsa con le chiavi inglesi, ci infilammo la chiave inglese e andammo. Grassi disse chi è che deve colpire questo ragazzo, come vi organizzate?. E mi disse è meglio che sia tu quantomeno il primo, visto che oggi ti affido questa responsabilità. E io dissi va bene, certo, sono io il caposquadra. Poi disse c'è qualche volontario per chi deve affiancare Costa? Perché uno è troppo poco. L'incarico fu dato a Ferrari Bravo perché era una persona molto tranquilla, mite, quindi dava garanzie che andavamo a fare quello che avevamo progettato. Cioè colpire Ramelli, intimidirlo e basta. Procurargli delle ferite, ma esauribili in pochi giorni».
«Arrivammo lì e rimanemmo pochi minuti ad aspettare che Ramelli arrivasse. Io ero in via Paladini con Aldo (Ferrari Bravo, ndr). Guardavamo la vetrina, io ogni tanto mi giravo per vedere se arrivava e una volta girandomi vidi che c'era proprio questo ragazzo, stava legando il motorino. Allora diedi una gomitata ad Aldo e mi avviai. Attraversando la strada, però, Ramelli mi vide e io vidi lui. Cioè l'ho guardato negli occhi e lì, in questi attimi, perché ancora continuavo a correre, mi sono reso conto di qualcosa che non avevo capito prima, non avevo potuto provare prima. Cioè prima i fascisti erano un simbolo odiato ma lì davanti non avevo più un fascista, c'era Ramelli che era un uomo. E avvertii il peso di quanto stavo facendo, intuivo la sofferenza che lui avrebbe provato, che stava già provando. Ma qui comincia la mia colpa più grave, perché anche se emotivamente volevo dire basta, andiamocene via, non facciamo niente", c'era questo senso del dovere, di rispetto per le decisioni prese. Ho nascosto la mia coscienza in quel momento e ho affidato alla mia ideologia il compito da svolgere».
«Arrivai di fianco a Ramelli. Lui si era coperto con le mani la testa e mi offriva il volto completamente libero, tanto che avrei potuto colpirlo in faccia. Per quanto possa essere assurdo non lo feci perché avevo paura di rompergli un dente, procurargli una ferita a un occhio, cioè di sfigurarlo. Quindi con la mano sinistra cercai di abbassargli le mani per colpirlo al capo, come mi ero fatto la logica di come dovesse succedere; e lo colpii al capo. Non so con quale forza, non so con quale precisione, ma lo colpii sicuramente. Ma il ragazzo non si stordì, anzi continuava a urlare. Cercò di scappare e scappando incespicò nel motorino che aveva fra le gambe. Il motorino cadde, lui cadde e io persi l'equilibrio e caddi anche io carponi. Lui cadde invece disteso e mentre ero per terra l'ho colpito almeno ancora un'altra volta. Non so dire dove, sulla gamba, sulla schiena. Ma in quello stesso momento una signora sopra di noi si mise a urlare. Ramelli stava ancora dicendo no, no, basta. Io non ce l'ho più fatta e sono scappato».
«Ho tolto il piede che avevo sotto il motorino e mi sono avviato per scappare via. Ma subito dopo mi sono dovuto fermare perché mi rendevo conto che non dovevo essere io il primo a scappare, dovevo essere l'ultimo, mi avevano affidato questa responsabilità e quindi mi fermai (...) ci trovammo dall'altra parte della strada, girammo un angolo e io cominciai a parlare con i compagni dicendogli le mie impressioni, dico sì, l'abbiamo colpito, è arrivato. Ma credo che non gli abbiamo fatto niente perché continuava a urlare. Ci avviammo verso Città Studi, arrivammo nell'auletta, c'era una borsa e cominciammo a mettere via le chiavi. A quel punto Gianmaria (Costantini, ndr) mi mostrò la sua chiave che aveva un puntino di sangue, un occhio che mi sta guardando ancora adesso. E io gli dissi: puliamole tutte, anche perché ci sono le impronte digitali, non si sa mai.
Mi avviai a Fisica dove avevo lasciato la macchina e incontrai il Grassi. Dissi a Grassi le stesse mie impressioni che avevo prima. Lui mi disse: va bene, ci vediamo, vediamo cosa diranno i giornali domani. E me ne andai a casa».
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