"Il giorno dell'ape" inietta adrenalina

Un autore che è stato una grande promessa e con questo romanzo diventa una grande certezza: cinquant'anni e tre romanzi, tra cui Skippy muore (Isbn), uno più originale dell'altro

"Il giorno dell'ape" inietta adrenalina
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Un incipit fulminante, nella migliore tradizione novecentesca. Una struttura solida con un crollo irrecuperabile che sembra arrivare troppo presto, ma generativo di una serie di verità imprevedibili. Un autore che è stato una grande promessa e con questo romanzo diventa una grande certezza: cinquant'anni e tre romanzi, tra cui Skippy muore (Isbn), uno più originale dell'altro. Congegno narrativo, linguaggio di centratissimo equilibrio tragicomico, profondità di sguardo nell'analisi sociale sembrano la formula del successo di Il giorno dell'ape di Paul Murray (Einaudi, traduzione di Tommaso Pincio).

Siamo ai giorni nostri e tutto va bene per la famiglia Barnes, allocata in un villaggio irlandese («sperduto» e «noioso», ma anche «uno sputo» o «paesino di merda» a seconda di chi ne parla) a due ore da Dublino. A Dublino si va per i saldi, per lavoro o per il college e ci si trasferisce solo se si passa un grande guado, di successo o di fallimento, perché più d'un genitore pensa ancora che la città sia piena di pervertiti. I provinciali Barnes sono così composti: papà Dickie, che vende auto nella concessionaria Volkswagen di famiglia, anche sponsor della locale squadra di calcio e che va a gonfie vele; mamma Imelda, «famosa per la sua bellezza», che tuttavia sembra l'unica sua eccellenza e che si aggira altera solo tra creme viso e appendiabiti durante le sedute di shopping; la figlia adolescente Cass, che sogna da anni di studiare letteratura al Trinity College (come Paul Murray); il figlio più piccolo PJ, che tutto osserva e forse tutto sa, ma che alla fine è ancora un bambino. È proprio PJ quello che tutto il giorno parla delle api, che stanno morendo come sta morendo la natura, come sta finendo il mondo e come sente di morire Cass, di smarrimento e soffocamento familiare, nonostante la splendida casa in cui vive e la felicità di miele in cui i suoi genitori perpetuano il matrimonio. In tale milieu l'incipit è indimenticabile perché disturbante e predittivo, come la pistola messa in scena dal regista per sparare, prima o poi: «Nel paese vicino, un uomo aveva ucciso la famiglia. Aveva inchiodato le porte perché non uscisse nessuno; i vicini li avevano sentiti correre per le stanze, gridare, chiedere pietà. Finita l'opera aveva rivolto la pistola contro sé stesso. Ne parlavano tutti. Che razza d'uomo bisognava essere per fare una roba simile, che segreti doveva nascondere. Le voci si rincorrevano. Tresche, droghe, file segreti nel computer». Quello che Elaine, la migliore amica di Cass, riesce a commentare in proposito è: «Insomma, almeno fai qualcosa». Quando la sorte spariglia le carte anche per i Barnes, però, la catastrofe ingoia la noia: le auto non si vendono più, il paese sente puzza di rovina per la ex brillante famiglia e presto la compassione cede il posto all'emarginazione. I Barnes, appestati, si rendono invisibili, svendono oggetti e futuro, le unghie di Imelda si scheggiano e si nota la ricrescita. Lo scempio familiare è scempio planetario: se i quattro soccombono al passato e al presente, il mondo perde il proprio futuro.

A noi lettori non resta che goderci i capitoli che separano l'inizio dalla fine: battute, citazioni ultraletterarie, umorismo davvero amaro e profili psicologici sincopati ci accompagnano in un romanzo quasi perfetto, che ha l'unico neo di un finale realistico ma forse eccessivo.

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