Sarà l'immigrazione la prima trincea della guerra di posizione tra Parlamento e toghe. È facile prevedere che dalle minacce bellicose (ai limiti dell'eversione) lanciate all'inaugurazione dell'Anno giudiziario da chi è contrario alla separazione delle carriere ma anche al nuovo Decreto flussi che ha portato alle Corti d'Appello la competenza sui rimpatri accelerati, si passerà alle solite sentenze «buoniste» sul protocollo Albania. D'altronde, non è un mistero che alcune Corti abbiano già chiesto «rinforzi» proprio ai giudici delle sezioni Immigrazione che da ottobre stanno ostacolando l'azione dell'esecutivo contro i mercanti di uomini. Non è escluso che da domani, quando per la prima volta nel 2025 i giudici dovranno decidere se rimpatriare o meno chi non ha diritto d'asilo in questo Paese, l'offensiva giudiziaria si trasformi nell'ennesimo attacco al potere esecutivo.
Il presidente Ue Ursula Von der Leyen e il commissario per il Mediterraneo Dubravka uica hanno già detto di considerare l'accordo Roma-Tirana per gli hotspot extra Ue «un percorso innovativo» che potrebbe trovare una cornice giuridica europea, sui rimpatri e sull'interpretazione genuina dei «Paesi sicuri» dietro cui si sono nascoste le nostre toghe e su cui deve pronunciarsi entro marzo la Corte di Giustizia Ue, tirata per la giacchetta proprio da alcuni tribunali. E non è detto che non dia torto alle toghe.
La questione infatti non interessa soltanto l'Italia ma i tanti Paesi europei interessati a portare altrove i clandestini per valutare chi ha diritto d'asilo e chi no. La Francia multiculturale ha già fatto strame della circolare Valls che in questi anni aveva riconosciuto quasi in automatico migliaia di sans-papiers con il nuovo ministro dell'Interno Bruno Retailleau secondo cui «non esiste un diritto automatico a una regolarizzazione alla rinfusa», Olanda, Danimarca e Regno Unito stanno valutando a quali Paesi extra Ue eventualmente rivolgersi (vedi la Serbia).
Intanto l'opposizione e l'Anm fanno quadrato a difesa della magistratura nell'intricata vicenda di Osama Njeem Almasri, l'ex direttore del carcere di Mittiga (Tripoli) che dal febbraio 2015 - secondo il dispositivo della pre-trial Chamber della Corte penale internazionale - avrebbe picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente 22 persone (compreso un bimbo di 5 anni) e ucciso personalmente o meno 34 detenuti. Almasri, che non sapeva di essere ricercato, è stato scarcerato per un errore nella procedura di cui sarebbe responsabile la Procura generale di Roma e la Corte d'appello capitolina. Come confermano numerosi giuristi e come ricostruito nei giorni scorsi dal Giornale, infatti, l'arresto del criminale di guerra da parte della Digos di Torino, sebbene «irrituale» perché la Corte non aveva trasmesso gli atti al ministro della Giustizia, poteva essere convalidato ex articolo 716 del Codice di procedura penale, dando più tempo al ministro della Giustizia Carlo Nordio per avviare le procedure di sua competenza, come la consegna di Almasri alla Corte penale internazionale. Secondo altre fonti il vulnus sarebbe una legge speciale non sufficientemente normata, dunque del Guardasigilli e della sua inerzia. Si chiama fuori l'Anm, in disaccordo sui rilievi della Meloni, secondo cui il rilascio è colpa della magistratura. Per la giunta esecutiva centrale è stata una scelta «politica» quella del ministro di non chiedere la custodia cautelare, lui che era «il solo deputato a domandare una misura coercitiva».
Mercoledì il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, che ha espulso Almasri perché socialmente pericoloso, riferirà alla Camera. La Corte penale lamenta di non essere stata consultata prima della scarcerazione.
Resta anche il mistero sul perché il mandato di cattura sia scattato 12 giorni dopo l'inizio del viaggio di Almasri tra Regno Unito, Germania, Francia, Olanda e Svizzera, iniziato con il volo Tripoli-Roma-Londra visto che la richiesta del Procuratore Karim Khan è datata 2 ottobre.
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