Il finale è nella notte del 25 aprile 1944. Il 25 aprile di 80 anni fa, il 25 aprile sbagliato, quello in cui non si vince, quello in cui fare i partigiani è ancora una cosa per pochissimi e si paga con il proprio sangue. Renato Del Din guida un attacco, impari, contro la caserma dei tedeschi e quella dei militi della Repubblica sociale a Tolmezzo, in Friuli. In città risuonano ovunque raffiche di mitragliatore e scoppi di bombe a mano. Si sente a ripetizione l'urlo: «Osoppo avanti! Viva l'Italia». Tredici ribelli attaccano in profondità una forza composta da centinaia di soldati. Li costringono a ripiegare sino alle due caserme. Non è follia quella che ha portato Del Din a tentare questa sortita che sfida la logica dei numeri. I tedeschi pochi giorni prima hanno tentato un rastrellamento che alle brigate partigiane Osoppo poteva costare molto caro, chi è stato preso come il partigiano Giacomo Misana è stato finito brutalmente. I tedeschi prima l'hanno preso a bastonate, poi gli hanno sparato con un mitragliatore, poi l'hanno finito con quattro colpi di pistola in faccia. I rapporti con i partigiani jugoslavi e i loro alleati comunisti sono pessimi, se gli italiani non mantengono il controllo del territorio rischiano che siano gli slavi a mettere le mani sul Friuli. I partigiani italiani non comunisti della Osoppo ne avranno la conferma mesi dopo, nel febbraio del 1945, con l'eccidio di Porzus. Ecco le ragioni dell'attacco a Tolmezzo che i vertici della Osoppo affidano a Del Din: mostrare combattività, contendere il territorio ai tedeschi, ritagliare uno spazio a quegli italiani che vogliono restare italiani e che non vogliono né il nazifascismo né la morte della Patria. E Renato Del Din, scelti dodici compagni tra i più esperti nel combattimento ci prova, costi quel che costi, del resto aveva le idee chiare già nel momento in cui ha scelto la lotta partigiana: «Se il fuoco ci desidera, il fuoco ci prenda! Se la morte ci desidera, noi siamo suoi!».
E nel provarci resta a terra sotto le raffiche. Morirà alle 7 e 15 del mattino dopo una silenziosa agonia. Ma nei militi del presidio ha portato lo sgomento: «Sembra che si battano anche dopo morti! L'ho visto io quello lì, incurante del nostro fuoco, avanzare sparando... cadere e poi rialzarsi; sparare... sparare ancora, e poi cadere di nuovo...».
E poi c'è la reazione della città. Si vorrebbe per il ribelle un funerale di terza classe, gli levano la giacca della divisa che Del Din si era tenuta stretta. Ma la gente lo riveste, gli porta un'altra giacca militare, lo coprono di fiori, spuntano un tricolore e un cappello da alpino. I tedeschi devono abbozzare perché non finisca peggio... In Carnia la Patria non è morta l'8 settembre.
Questo e altro ancora si può trovare nel libro che Alessandro Carlini dedica a Renato Del Din: Se il fuoco ci desidera (pagg. 192, euro 19), appena pubblicato per i tipi di Utet.
Il saggio del collega dell'Ansa è davvero una biografia accurata della breve vita di questa medaglia d'oro al valor militare ma è, al contempo, anche il poderoso spaccato di un'epoca e rende conto della complessità di quanto è accaduto dopo l'8 settembre del 1943.
Del Din è un militare ed un alpino sino al midollo. Ha introiettato i valori del padre Prospero, militare tutto d'un pezzo che non giura per il Duce visto che pensa che di giuramento se ne possa fare uno solo e lui lo ha fatto al Re. E Prospero per quel giuramento finisce prigioniero degli inglesi in India, dopo aver combattuto la disastrosa campagna di Grecia voluta da Mussolini, una campagna che porterà la divisione Julia al massacro. Mentre il padre finisce nei campi di prigionia inglesi ai piedi dell'Himalaya, Renato diventa ufficiale, con un vero talento per il combattimento in montagna e si prepara a fare il suo dovere in una guerra che non gli piace. Viene sorpreso come tutti dall'8 settembre, si trova abbandonato senza ordini in un territorio che per i tedeschi è fondamentale controllare. Sceglie d'istinto, sceglie in fretta e si da alla macchia. La sua analisi di quello che è accaduto durante il fascismo è lapidaria, ha perso la guerra anche perché nonostante la smania di parate ha disfatto l'esercito, troppo di popolo e troppo legato al Re: «Ben capiva il fascismo che nell'esercito aveva la massima difficoltà da vincere e tutte le sue azioni verso questo organismo furono dirette a smontarlo». Non fa sconti agli italiani, che in maggioranza fascisti erano diventati: «L'esercito ha scontato la colpa di tutti i cittadini, ed in special modo delle classi più alte che nel loro egoismo hanno dimenticato ogni cosa». La sua risposta è cercare un nuovo Risorgimento. Nel farlo si trova a scriversi anche con un ufficiale, Eliano Buldrini, che ha scelto l'altra parte e si è schierato con l'Rsi. Entrambi vogliono salvare l'onore, parlano la stessa lingua, quando smettono di scriversi Del Din ha parole di rispetto ma chiarissime sul confine tra il giusto e lo sbagliato: «Il sacrificio tuo sarà inutile, non solo, ma la gente come te sarà giudicata nemica della Patria e guarda che non vale il giudizio dello straniero ma quello della nostra gente». E verso il commilitone che sceglie la parte sbagliata sembra più che altro aleggiare il dolore di chi vede un fratello sprecare la vita per una causa senza senso.
A ottant'anni di distanza, in una Repubblica democratica il senso della vita di Renato Del Din dovrebbe far tremare i polsi, siamo noi, come italiani e cittadini. Il senso dovrebbe essere anche la sua pietas, che non faceva sconti sul campo, anche verso quelli dall'altra parte.
La capiva Calvino quella pietas nel Sentiero dei nidi di ragno, sembrano capirla meno quelli che tirano il 25 aprile per la giacchetta. Il fuoco da cui si lasciò consumare Del Din per proteggere l'Italia da tutte le dittature è molto diverso dalla cenere che si cerca di riscaldare a scopo politico, magari in un discorso da un minuto e mezzo.
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