Dante è eterno perché si lascia conoscere e seguire come un amico

L'auto-intervista letteraria di Borges, pubblicata il 19 luglio 1981

Dante è eterno perché si lascia conoscere e seguire come un amico

Ho letto molte volte La Divina Commedia. Non so l’italiano. Non ho mai studiato questa bella lingua. Ma con Dante ho appreso molto italiano. Poi, anche Ariosto me lo ha insegnato, quando ho letto l’Orlando furioso. Sono stati due magnifici maestri. Come ho già ricordato, ho letto molte volte La Divina Commedia, in diverse edizioni, ed ho studiato i vari commenti su quest’opera, apice della letteratura italiana. Tali interpretazioni mi indussero a rilevare che nelle versioni più antiche prevale il commento teologico; poi viene, soprattutto nel secolo XIX, il commento storico. E, attualmente, il commento estetico, specie nelle edizioni di Grabber e Momigliano, in cui è posta in rilievo l’accentatura di ogni verso, che è una delle più alte virtù di Dante. Ma c’è un aspetto di Dante sul quale vorrei soffermarmi in modo particolare.

Quale?

La tenerezza, la delicatezza, l’incanto che certi passaggi di quest’opera possiedono. In generale pensiamo sempre allo scuro e sentenzioso poema fiorentino e ci dimentichiamo di questa tenerezza chefa parte della trama e di cui posso ricordare alcuni esempi: Dante avrà letto senza dubbio in qualche libro di geometria che il cubo è il più saldo di tutti i solidi. Bene, questa è un’osservazione corrente che non ha nulla di poetico, e tuttavia Dante la usa con una metafora riferita all’uomo che sa sopportare la sventura «Buon tetragono ai colpi di fortuna» dice in quel verso».

Abbiamo anche quella strana metafora della freccia...

Sì. Dante vuol parlare della rapidità della freccia che scocca dall’arco e si pianta nel bersaglio. Ci dice allora, per dimostrare quanto rapidamente accadano cose, che la freccia si conficca nel bersaglio e dopo parte dall’arco e lascia la corda. Cioè inverte l’inizio e la fine per dimostrare la rapidità. C’è nella mia memoria un verso che non si cancella: quello del primo canto del Purgatorio che si riferisce a quella mattina incredibile in montagna. Qui Dante è uscito dalla tristezza, dall’orrore dell’inferno, dice: «Dolce color d’oriental zaffiro che s’accoglierà nel sereno aspetto...», ossia nel verso ci dice che si era appena purificato da tutta quella irreparabile tristezza e da quel terribile fumo. E lo fa descrivendo l’aurora; paragona il colore dell’aurora ad uno zaffiro orientale.

Tutta la «Divina Commedia» è piena di delizie di questo tipo. Ciò che la sostiene è questo stile narrativo.

Quando io ero giovane lo stile narrativo veniva disprezzato, veniva definito aneddotico, e si dimenticava che la poesia è cominciata come narrativa, che alle radici della poesia c’è l’epica e che l’epica è il genere poetico primitivo. Nell’epica c’è il tempo, c’è un prima, un adesso, un poi. Così, nella Commedia, entriamo nella narrazione. E lo facciamo in modo quasi magico. Perciò consiglierei al lettore di dimenticare, diciamo, le discordie tra Guelfi e Ghibellini, di dimenticare la scolastica, e anche le citazioni e le appropriazioni mitologiche o dei versi di Virgilio (che Dante molto spesso migliora e ripete), trattandosi di magnifici versi in latino. Di dimenticare tutto ciò e lasciarsi trasportare dal racconto. Io mi sono sempre lasciato portare dalla lettura, dall’emozione estetica che ogni voltar di pagina mi offriva. Cioè mi sono abbandonato alla narrazione. Gli studi, i commenti, tutto ciò l’ho rimandato a dopo.

Il racconto è attraente, elegante, delicato. Quando Dante narra del soprannaturale, non deve preparare il lettore, lo trascina con semplicità.

Dante non ha bisogno di preparare il lettore. «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura»: Dante ci dice che a 35 anni si trovò nel mezzo di una selva oscura che, naturalmente, è allegorica, ma in cui crediamo fisicamente. (...) La sua visione fu volontaria. Fu una visione di fede poetica».

Ricordo che Coleridge disse una volta che «la fede poetica è la sospensione volontaria dell’incredulità».

Certo. Per esempio, se assistiamo a una rappresentazione teatrale sappiamo che sulla scena vi sono uomini mascherati che ripetono le parole che Shakespeare, Pirandello o Ibsen gli hanno messo in bocca. Tuttavia, senza impaccio, noi accettiamo questi uomini come se non fossero camuffati, come se quel cavaliere in abiti d’altri tempi che monologa lentamente nei vestiboli della vendetta fosse realmente il Principe di Danimarca, Amleto. Ci abbandoniamo. Nel cinema il procedimento è ancora più curioso, perché stiamo vedendo non il mascherato, ma fotografie di mascherati, e tuttavia facilmente crediamo in loro durante la proiezione. Questo, nel caso di Dante, è così vivido, così reale che arriviamo a supporre che egli credette nel suo altro mondo; in quel mondo immaginato dalla sua visione poetica, dalla sua fede poetica. E cosi lo sentiamo tanto reale quanto egli lo sentì.

Dante, inoltre, ottiene di farsi conoscere profondamente. Come?

Per il fatto di scrivere in prima persona. Non è un mero artificio grammaticale, no. Dante dice “vidi” invece di “videro”. E ciò significa che Dante è uno dei personaggi della Commedia. Questo è un aspetto nuovo della letteratura. Anche Sant’Agostino ha scritto le sue Confessioni; ma quelle confessioni, proprio per la loro splendida retorica, non ci sono tanto vicine quanto lo è Dante, poiché la retorica si frappone tra quello che egli vuol dire e quello che noi sentiamo.

L’interporsi della retorica è una disgrazia molto frequente negli scrittori?

Direi di sì. La retorica dovrebbe essere un ponte, una strada, ma in genere è una muraglia, un ostacolo. E questo si osserva nel caso di scrittori tanto differenti come Seneca, Quevedo, Milton, Lugones. In tutti, ciò che dicono si frappone tra loro e noi. Nel caso di Dante io non avverto che sia così. Direi che Dante ci permette di conoscerlo, ci permette un rapporto di intimità, e perfino in un modo più personale di quanto sarebbe potuto accadere ai suoi contemporanei. Direi quasi che lo conosciamo come lo conobbe Virgilio, che fu un suo sogno. Senza dubbio più di quanto poté conoscerlo Beatrice Portinari, innamorata e ispiratrice; credo che lo conosciamo più di tutti. Perché Dante si colloca lì, nel centro dell’azione. Tutte le cose non sono soltanto viste da lui, egli vi prende parte. Questa parte non sempre va d’accordo con ciò che descrive, ma penso che non sia eccessivamente importante. Così abbiamo Dante atterrito nell’Inferno (deve essere atterrito, come si sente dalla descrizione, non perché fosse un codardo, ma perché è necessario che sia atterrito affinché noialtri crediamo nell’Inferno).

Notiamo allora che ha timore, ha paura, e poi giudica ciò che vede. E sappiamo come lo giudica, non perché lo dice, ma per il sentimento poetico che emerge dalla sua descrizione, dagli accenti del suo linguaggio, dalla musicalità e dall’intonazione che usa. (...)

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