Addio amato nemico È stato bello litigare con un critico come te

Non andò bene, la prima volta. O, meglio, andò benissimo. Nel senso che, con rapidità fulminante, incontrai uno straordinario consenso televisivo. Di popolo. Per il divertimento della dissacrazione. Non fu lo stesso per la critica. Con qualche eccezione di eccentrici e guastatori, mi trovai cucinato dai critici più rappresentativi e istituzionali, approdati dopo anni di straordinario impegno intellettuale alla funzione ancellare di osservatori della televisione. Un divertimento più che un mestiere, ma sempre più impegnativo man mano che la televisione (e la carriera libertina di Berlusconi lo ha dimostrato) diventava più importante per la politica e la società. E man mano che la televisione cresceva nell’offerta e nell’insidia, più ragguardevoli e impegnati erano i suoi commentatori. Così al Corriere della sera arrivò Oreste Del Buono e a Repubblica Beniamino Placido.
Il primo, subito durissimo con me, con gli anni si dimostrò più elastico; il secondo fu, e restò sempre, rigidissimo. Iniziò così un epico scontro, durato quasi dieci anni. Cominciò con lo scioccante appellativo «stronza» a una preside che aveva letto nel salotto di Costanzo una brutta poesia. Fece epoca, come molti ricordano, e fu un tripudio di esecrazioni (la maggior parte, ma in cuor loro divertiti) e di compiacimenti. Ma dall’altra parte della televisione, chiamati a gran voce da amici scandalizzati al telefono, o svegliati per lo schiamazzo a ora tarda, Oreste del Buono e Beniamino Placido erano pronti a rispondere. Il primo mi paragonò al «Canaro», borgataro romano che uccise e incaprettò un amico grosso e prepotente; il secondo scrivendo un articolo indispettito, dal titolo eloquente: «Sgarbi fa più notizia della mafia». Certo c’era comunque motivo d’essere compiaciuti, soprattutto per il secondo intervento che registrava, con dolente stupore, i modesti ascolti per un programma di Raitre sulla mafia, rispetto al boato, e al picco di Auditel, del mio siparietto con la preside, piuttosto volgare e impertinente. Ma era prevedibile che l’irruzione di un linguaggio crudo e l’efficacia dell’insulto, rarissimo in tv, avrebbero dato scandalo, fatto parlare e determinato innumerevoli reazioni, sconvolgendo anche il prevalente bon ton televisivo.
Cominciò così oltre che una fortunata e controversa carriera televisiva anche un ininterrotto dialogo a distanza con Beniamino Placido, il quale mi aspettava al varco per coprirmi di contumelie. E io, per dargli soddisfazione, gli rispondevo commentandole nelle mie trasmissioni. Ad ogni uscita, prima dalla Carrà, poi da Mike Bongiorno, seguiva una sua nota e non le fece mancare, con regolare frequenza, anche durante la stagione degli Sgarbi quotidiani. Ma da questo dialogo a distanza derivarono negli anni una considerazione e un affetto insospettabili.
Sì, è vero, Placido continuava a criticarmi, ma concedendo, nella diversità delle concezioni, nella diversità delle opinioni, nella distanza tra una persona posata, ironica e avveduta e una iraconda, scomposta e incontrollabile, qualche condivisibile malumore, qualche riflessione rispettabile. Così iniziammo a incontrarci, lui a rimproverarmi la mia televisione brutale, aggressiva, io a rinfacciargli un perbenismo contraddittorio con la sua libertà di pensiero. Meridionale colto, lucano, evase con il sogno americano e con la passione per quella letteratura entro la quale era «immigrato» più di quanto non lo fosse a Roma. Dotto e brutto, Beniamino Placido era facile da prendere in giro per l’aspetto, per il vistoso naso, ma il suo pensiero era sottile, mai banale (come quando fece indispettire i suoi colleghi di sinistra dichiarando che l’Einaudi era stata faziosa e partigiana nella scelta dei titoli e nell’indicazione di una linea culturale) e la sua prosa arguta, divertente anche quando era dissacrante (intendo non in astratto ma contro di me, suo amministrato, suo beniamino, anche se criticabile, criticabilissimo). Dall’ironia finiva con l’uscire quindi una curiosità, una considerazione che mi rendevano più gravi i suoi silenzi che le sue stroncature. La sua scrittura contratta e originale e il suo pensiero curioso gli rendevano attraente anche ciò che non gli assomigliava. Così gli toccarono, con Chiambretti e Santoro, anche Funari e Sgarbi.

Ma verso di noi poteva avere più indulgenza, per la nostra immediatezza, che rispetto a Giuliano Ferrara, rinnegato. Poi i nostri programmi finirono, e Placido spense la televisione. Negli ultimi anni non lo si leggeva più. E io nel ricordo avevo, e ho, non rabbia, ma nostalgia delle sue critiche acide, cattive, feroci. Ma vive.

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