Addio a Giancarlo Menotti il genio musicale dei «Due Mondi»

«Che cosa scriveranno su di me da morto? Ah, proprio non lo so, e spero d'avere allora di meglio da fare che leggerli». Giancarlo Menotti diceva questo cose, seduto su un muretto della sua Spoleto, una manciata d'anni fa. «Certo, da vivo, ne hanno scritto di tutte. O meglio, ne hanno scritto, in Italia, soprattutto una: che non ero un contemporaneo. Perché l'idea ideologica della maggior parte dei critici è di decidere loro dove va l'arte, dove il tempo, dove la vita. Il successo non conta, anzi chi ne ha è sospetto...».
Parlava semplice, senza acrimonia. Raccontava semplicemente la sua situazione, di uomo che metteva in musica le storie d'oggi, senza rigirarle nel tormento degli enigmi tortuosi degli autori dell'avanguardia ufficiale, su cui non si soffermava; il suo volto da nobile lombardo del Rinascimento, temperato d'amabile ironia, non somigliava affatto alla faccia del perseguitato.
Lo intervistavo, ma cercavo invano la polemica aguzza. Era già intorno ai novant'anni, poiché era nato nel 1911, e della Prima Guerra Mondiale aveva infatti cauti ma presenti ricordi da bambino. Un curriculum come il suo procede irresistibile ed inestinguibile lungo tutto un secolo. Il talento precoce, gli studi a Filadelfia su consiglio di Arturo Toscanini, l'esordio con Amelia al ballo e poi Il ladro e la zitella, tra favola e realismo e poi la discesa nell'inquietudine torbida dell'ambiguità attorno ai fatti di mistero: da La Medium, nel 1946, l'ingannatrice che finge di parlare con i bambini defunti e che non viene creduta quando confessa il suo trucco, a La Santa di Bleeker Street, la visionaria che anela ad un mondo mistico senza capire quello che le è attorno, del 1954.
Menotti scrive da sé i libretti, unanimemente ritenuti di grande impatto teatrale. L'evento clamoroso che lo mise al centro dell'attenzione anche popolare fu Il Console, storia di attese, di visti tardi concessi, di dolore quotidiano. Premio Pulitzer, copertina sul Time, ma anche nugoli di improperi alla Scala, dove un principe della critica musicale, Giulio Confalonieri, salì in loggione con un lungo fischietto (poi egli stesso si ridiscusse: erano anni di passione melodrammatica)... Tutta la vita, Menotti scrisse opere: fino a tre anni fa, con Goya, data al teatro An der Wien, protagonista Placido Domingo.
Giancarlo Menotti è il compositore italiano del nostro tempo più rappresentato. Ma è noto per tante attività: la regìa, fatta di intensa e nuda recitazione; il Festival dei Due Mondi, con cui lanciò nel mondo la struggente bellezza di Spoleto, partito con connotazione gay, ma tale da riunire dall'inizio i grandi artisti d'ogni età e sesso, da Luchino Visconti al direttore Thomas Schippers, a Henry Moore come scenografo del Don Giovanni.
«Maestro» gli chiedevo quel giorno, «Lei è un grande. Che cos'è la grandezza?». S'era messo a ridere. «Pochi anni fa, nel mio paese, Cadegliano, vollero farmi festa. Io ero qui a Spoleto, avevo le ore contate, fissai un incontro nel pomeriggio, presi una grossa macchina veloce e mi feci portare al Nord di corsa. L'autista, ormai nei pressi di Varese, cioè quasi a casa mia, arrivò di picchiata sul casello. Una pattuglia ci fermò. Era tardi, implorai che ci lasciassero arrivare a destinazione. Sono Giancarlo Menotti, dissi. Chi? Mi accorsi che non avevo documenti. Mi portarono un paese più in là. Andammo a una pasticceria dove quand'ero ragazzino mangiavo certe barchette di pasta frolla. La proprietaria anzianissima mi fece grande festa, ma per il cognome non andò oltre “a l'è il fioeu della sciura, della sciura...”. Quando finalmente arrivammo il ritardo era pazzesco. Incominciava a piovere, la gente era nervosa, i discorsi quasi bruschi.

Due bambine vestite di bianco mi strascicarono una canzoncina con le coroncine di fiori sulla testa per storto, e l'occhio ostile. Io mi guardavo in giro con pazienza. E mi chiedevo: ma sarà la mia musica così grande da compensare un poco tutto questo disturbo?».

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