Addio al Terzo bersaglieri, Milano perde un pezzo di storia

Addio piume al vento. Con il Terzo reggimento bersaglieri che lascia per sempre la caserma di viale Suzzani, Milano perde un pezzo della sua storia. Oltre alle autorità militari oggi alle 10 a salutare la bandiera più decorata dell'esercito italiano ci saranno alcune centinaia di giovani e meno giovani lombardi che, ai tempi in cui la naia chiamava, svolsero il servizio militare nei suoi battaglioni. Ma anche qualche vecchio combattente sul fronte russo durante il secondo conflitto mondiale. Il glorioso vessillo raggiungerà Capo Teulada (CA) dove il reggimento verrà ricostituito nell'ambito della Brigata «Sassari». L'epopea del Terzo, costituito nel 1861, ha accompagnato in pace e in guerra tanto la storia d'Italia quanto quella di Milano. Nella caserma «Mainoni» di via Mario Pagano dal 1937 al 1952, è trasferito a Novara nel 1953 e poi nuovamente a Milano dal 1963 fino ai giorni nostri. Il 16 novembre di quel 1963, da piazza del Duomo i bersaglieri devono raggiungere la caserma «Mameli» di via Suzzani utilizzando i camion militari. Ma la folla è tale e tanto entusiasta da costringere i fanti piumati a sfilare a piedi, con lunghi tratti al passo di corsa, fino a destinazione. Distintosi nella terza guerra per l'indipendenza a Borgo Levico e poi nella presa di porta Pia, il reggimento merita la prima medaglia d'oro durante la Grande guerra conquistando il monte Sei Busi e quota 85 di Monfalcone. È lì che Toti, ormai ferito a morte, lancia la celebre stampella gridando «Tié, tanto nun me serve più». Nelle guerre coloniali il reggimento partecipa agli scontri di Mandada Maarà e Sciré. Ma l'olocausto del reggimento è consumato sul fronte russo, durante la seconda guerra mondiale. Partito da Milano nel luglio 1941 con lo C.S.I.R. e poi A.R.M.I.R., supera il Dnjeper, il Donetz e conquista Stalino nell'ottobre 1941. È una vita di automezzi che slittano nel fango, di marce estenuanti e di prime nevi. Ma ai militari viene comunicato che i cappotti arriveranno solo a novembre. Su carte topografiche russe, i bersaglieri stampano il giornale del reggimento che si titola «In bocca all'orso». A comandare il Terzo è il leggendario colonnello «papà» Aminto Caretto. A dicembre 1941, ormai siamo a 20-25 gradi sotto lo zero, i russi sferrano un violento attacco a Rassipnaja ma sono respinti. Poi, il giorno di Natale, a Ivanowsky, il reggimento mantiene la posizione ma perde il 50 per cento dei suoi uomini contro una forza russa sei volte superiore in uomini e mezzi. Il cappellano don Mazzoni cade colpito a morte mentre impartisce l'estrema unzione a un ferito grave sulla linea del fuoco. Tutto sembra poi procedere liscio, fino a raggiungere il Don con la conquista di Serafimovich. Nell'agosto del 1942 «papà» Caretto, che durante una sosta delle operazioni in Ucraina provvede persino a bonificare una palude guadagnandosi la riconoscenza dei contadini, è ferito da una scheggia di granata. Pur di stare vicino ai suoi uomini rifiuta il ricovero e dopo pochi giorni muore per sopraggiunta cancrena. Poi l'ultima furibonda battaglia sul Don, nel dicembre 1942, dove a Meskov il Terzo bersaglieri sacrifica la maggior parte dei suoi soldati, consentendo però al resto delle truppe il ritiro verso Ovest. E per centomila italiani inizia il tragico «davai» di gelo e fame. Sono altre due medaglie d'oro. Con la Repubblica il Terzo bersaglieri interviene per le calamità naturali in Sicilia, in Irpinia e a Firenze nel 1968, dove il suo apporto risulta determinante.

Nel 1993 partecipa alla missione «Ibis» in Somalia e, salutato all'arrivo da un vecchio ascaro fedele all'Italia, torna a Milano con una mascotte somala: un ragazzino orfano che verrà cresciuto dal reggimento. Poi arrivano gli anni bui, in cui si vocifera lo scioglimento del reparto, fino alla rinata speranza: continuare a vivere pur se lontano dalla Madonnina. Perché le cose grandi non muoiono mai.

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