Il Regno Unito, orgoglioso progenitore storico del libero mercato internazionale e del neoliberalismo «hard» di thatcheriana memoria, si è coricato l’altroieri sera ancora una nazione moderna e si è svegliato ieri mattina un Paese stranamente statalista.
Durante la notte, il governo laburista aveva infatti deciso di nazionalizzare le banche (almeno in parte) così riportando il Paese indietro di almeno sessant’anni, fino alla vittoria elettorale del 1945, quando il laburista Clement Attlee ha portato clamorosamente sotto il controllo statale ferrovie, industrie siderurgiche, carbonifere e di costruzione navale.
Questa volta le illustri «vittime» si chiamano Barclays, Lloyds Tsb, Hsbc, Royal Bank of Scotland, tutte nella prima pagina del gotha delle grandi banche europee, sia per dimensioni e capitalizzazione, sia per la loro aggressiva partecipazione negli ultimi cinque-sei lustri alla grande «febbre dell’oro» della globalizzazione delle attività bancarie, che hanno poi confermato la City di Londra come l’indiscussa capitale della finanza europea, e mondiale, superiore in giro d’affari e importanza persino a New York.
Ma nel rendere disponibili 50 miliardi di sterline dello Stato britannico per garantire liquidità ai grandi istituti di credito (e così tecnicamente in parte «nazionalizzandoli»), il premier scozzese Gordon Brown, dalle palesi radici calviniste e vetero-laburiste, non stava in realtà indulgendo al desiderio interiore (finora inconfessabile) di strangolare quello che certi ignorantoni delle leggi economiche in Francia e Italia amano chiamare «il capitalismo selvaggio», quanto permettere al «capitalismo creditizio avanzato» di rimanere in pista (si spera: i mercati non hanno ancora digerito del tutto le sorprendenti novità).
Difatti, a rendere ancora più straordinari gli eventi di ieri era il clima nel normalmente concitato agone politico, di rigorosa compattezza bi- e persino tri-partisan: sia il leader dell’opposizione di centrodestra, David Cameron, sia il capo della terza forza britannica, Nick Clegg dei Liberal democrats, hanno offerto al (normalmente detestato) premier neolaburista Gordon Brown, il loro pieno appoggio.
Con una battuta, si potrebbe sintetizzare così: nazionalizzate le banche, di unità nazionale il governo.
Una tale compattezza a Westminster non si vedeva dai lontani tempi della Seconda guerra mondiale. Al consueto appuntamento di «Prime minister’s question time», a mezzodì di mercoledì, durante il quale Cameron normalmente si diverte a stendere con le sue eleganti stoccate ironiche la goffa serietà di Brown, ieri invece era tutto una sfilza di sonore dichiarazioni da «statista», invocando la necessità di «remare assieme» e di «non fare capovolgere la barca nazionale», rimandando a un futuro forse lontano le consuete battaglie ideologiche o retoriche.
«Salvare l’economia, salvare la City, salvare i posti di lavoro: di questi tempi eccezionali, servono soluzioni straordinarie e senza preclusioni ideologiche» era la tesi del premier Brown, lui stesso (da leader di sinistra) assai più a favore normalmente delle «soluzioni di mercato» di alcuni suoi colleghi di centrodestra continentali (Sarkozy, Merkel, Berlusconi).
Ma se la clamorosa misura neo-vetero-socialista di Brown può destare stupore fra chi guarda l’Inghilterra per la sua consueta coerenza alla fede neoliberale, forse ancora di più quelle proposte da Cameron, secondo tutti i sondaggi, il prossimo premier: «Blocchiamo tutti i bonus per i banchieri per i prossimi due anni», una vera eresia per il formale detentore dello scettro del patrimonio politico che fu di Margaret Thatcher, ma in questi giorni pazzi londinesi, una proposta che suona terribilmente valida, persino accettabile a chi riverisce ancora il ricordo politico della Lady di ferro.
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