Adriana, diario di una Moratti

La primogenita del capostipite Angelo, moglie dello scrittore Lecomte, è la memoria della famiglia: "Sopra di noi c'è una cappa di santità e protezione" 

Adriana, diario di una Moratti

Erminia Augusta andava per mare. E con Lei anche Adriana Augusta e poi Maria Rosa Augusta. Erano petroliere, portavano i nomi delle donne illustri del casato e, con esse, della città dove stava l’azienda del capo famiglia che, esperto del settore, aveva deciso di regalare quel po’ po’ di navi alle signore.

Adriana Moratti in Lecomte ha occhi che sono un romanzo di vita, vivaci, si chiudono e si aprono seguendo umori e amori. Regala un sorriso che le riempie il viso e tiene in mano due fogli scritti a penna, pieni di cose e di memorie.

Sembra ai più che i Moratti, in fondo, siano tre o quattro, Massimo, Gian Marco, la Bedi, sì anche la Letizia che però fa Brichetto di cognome. Si occupano di pallone e politica. Ce ne sono altri, come la Gioia, il Natalino, affiliato, e, prima di tutti, Adriana, appunto, la capostipite, la prima figlia di Angelo e di Erminia, il mastice di tutta la famiglia, la signora che porta con energia i suoi anni bellissimi, celebrati oggi a Leuca, un’energia capace di respingere un paio di tentativi di scippo e furto agli autogrill della Milano Laghi: «Sarà perché sopra di noi resiste una cappa di santità e protezione. Il mio bisnonno ebbe ventuno figli, quattordici maschi e sette femmine, queste tutte suore. Per ogni parente religioso sono previste cinque generazioni di indulgenza plenaria, moltiplicato per sette fanno trentacinque».

I Moratti sanno fare di conto, papà Angelo era un docente in materia se a ventuno anni, mentre Wall Street andava in depressione, lui, bel giovanotto di Somma Lombardo, vendeva olio combustibile alla ditta Permolio di Genova che non riusciva a dare i resti: «Moratti, si dia una calmata». Non sapevano, alla Permolio, che l’Angelo avesse le ali. L’Erminia Cremonesi, ultima di sette fratelli maschi, divenne moglie nella chiesa di San Simpliciano a Milano, amava il football, tifava per l’Ambrosiana che il marito nemmeno sapeva che fosse. «L’aveva scoperta, l’Ambrosiana, in una trasferta a Roma, mamma l’aveva portato a vedere la partita, lui si era sentito straniero ma coinvolto tanto che quando nel Trentasei mamma stava per partorire Gingian, cioè Gian Marco, tre anni dopo di me, papà le diede una mossa: «Fa svelta che devo andare a vedere Ambrosiana-San Pierdarena». Aspettò la nascita e andò felice allo stadio per annunciare: «Mi è nato un maschio». Felice, felicità, famiglia, sono aggettivi e sostantivi che ritornano spesso nel racconto.

Adriana strizza gli occhi, non perde un solo rigo del suo diario di appunti, Yves Lecomte, il marito scrittore e poeta, la scruta curioso, le parole stavolta non sono sua esclusiva, la signora va via svelta come la madre Erminia: «Abbiamo vissuto una infanzia bella ma ho il ricordo dei bombardamenti, quella volta a Milano, Gian Marco, io, la Bedi che si chiama Maria Rosa ma lei pronunciava, con la boccuccia, “Beediosa”, di corsa tra le case in fiamme, mentre strillavano le sirene e la città era ferita dalle bombe, mamma terrorizzata, sicura di averci perso in quella pazza folla, il palazzo dei giornali in piazza Cavour sembrava il Colosseo, incendiato. Eppoi la villa a Boscochiesanuova, vicino a Verona, dove sarebbe nato Massimo, il nostro Paperino. I tedeschi avevano requisito una parte della casa, avevamo nascosto i pezzi importanti dietro un muro, temendo che ci avrebbero portato via tutto. Un comandante rientrato da Berlino, non si fermò all’alt della sentinella, venne ucciso sul nostro campo da tennis, vendemmo la casa, le macchie di sangue continuavano ad affiorare sulla terra rossa, mamma era sconvolta, Massimo nacque settimino. Gli attendenti erano cinici, si divertivano a farci prendere la scossa elettrica, mamma preparava la zuppa inglese e loro domandavano: “Was ist?”. “Gateau de la maison”, rispondeva mamma e, rivolta alla cameriera, mormorava: “daghen tant inscì crèpan svelt!”. Papà lavorava a Milano, Gingian lo chiamava Il Capo, ci raggiungeva la domenica ed era festa. La guerra, la paura, i tedeschi presero a sfilare verso il Brennero, i partigiani offrirono a mio padre il distintivo del Cnl».

Angelo Moratti lo nascose nel risvolto dei pantaloni, l’aria sapeva ancora di morte. Andò a comprare il latte in polvere per Massimo, ripose le scatole nell’automobile, partì per Verona: «Lo fermò una pattuglia tedesca. Papà scese dalla vettura, il distintivo scivolò in terra. Mio padre, deciso, gli posò un piede sopra, i tedeschi controllarono la vettura, la requisirono ma chiesero a mio padre perché non si spostasse, furono attimi di terrore. Arrivò un’altra pattuglia che ordinò ai colleghi di smammare. Papà si salvò ma si fece trentacinque chilometri a piedi per portare il latte in polvere a Massimo». Un’altra volta, con la gamba ingessata l’Angelo finì in un fossato dopo una sventagliata di mitragliatrice. «Papà non era fascista, non era comunista, è stato sempre apartitico, in tanti hanno cercato di assorbirlo in qualche formazione politica». Non lo incantavano anche perché: «mia madre lo chiamava incantatore di serpenti». Era lui, con il piffero magico delle parole, ad imbambolare chi gli si poneva di fronte. La svolta, dopo l’olio, arrivò con la miniera di lignite, a Pietrafitta sul lago Trasimeno: «La lignite, durante la guerra, era oro. Poi quella miniera serviva anche per nascondere i partigiani. Dopo il conflitto sarebbe stata trasformata in Centrale elettrica e avrebbe dato luce a Roma prima di essere confiscata dal governo». L’Angelo non si perse per questo, abituato alle bombe e ai distintivi finiti sotto il piede sentì profumo di affare negli States.

Adriana rilegge, racconta, Yves scruta, di fianco sta Fabrice che è il primo figlio (Mia, scrittrice, la seconda erede), nei tratti del viso ricorda zio Gingian. È compositore di musica classica, il nome è francese ma parla un bel milanese ed è interista al mille per cento, come tutta la comitiva. Fabrice vive a New York ed è sposato con la fascinosa Diana, fiore di un Salento che sta piacendo a un po’ troppa gente. I Moratti qui trascorrono una fetta delle loro vacanze prima di traslocare a Viareggio, dove Angelo regalò, petroliere e auto a parte, villa Adriana alla figlia. «Papà comprò una raffineria in Texas e scelse Augusta come sede della azienda. Disse: da lì passavano le navi per il Medio Oriente». Adriana ricorda i due anni trascorsi all’hotel Brufani di Perugia, poi Peppona, il cameriere gay di casa e ancora, dopo la guerra, il ritorno a scuola, il Vittorio Colonna di Milano: «Per abitudine mi presentai al preside con il saluto romano, comoda, comoda, Moratti ma cosa fa?» e i riti di famiglia: «Alla domenica papà andava a comprare le paste al Sant’Ambroeus, poi passava dalla rosticceria Leoni per il pollo allo spiedo, magari si andava ai laghi per il pic nic». Angelo Moratti non girava più per ministeri con le lattine d’olio e la parlantina giusta, ormai gli andava l’acqua per l’orto: «Vorrei sfatare questa leggenda che mio padre fosse un ballerino. Gli piaceva ballare, anche a mamma, avevano uno swing incredibile ma ballerino mai». Il ballo e il night club tornano nel ricordo: «Quando avevamo l’albergo Roccaruja in Sardegna, esaurito di amici, tutti nostri ospiti, si andava a ballare fino a notte fonda, c’erano Andrea Giordana, bellissimo, c’era la famiglia Segni e proprio lui, il futuro presidente della Repubblica, trascinato dalla madre, finiva le serate al night, insieme con il figlio Mario. C’era Berlinguer». A quindici anni l’Adriana circolava già in Lambretta per le strade di Milano, a diciotto trovò una giardinetta Topolino decapottabile, con radio e felicitazioni in diretta per tutte le nate nel giorno di sant’Anna. Roba fina, Fino è la marca del motoscafo, idrojet, californiano, favoloso dono dei favolosi anni Sessanta, unico esemplare ancora navigante, il nome, ovviamente, è Angel, sta ormeggiato a Leuca, Adriana lo osserva e lo cura, memoria forte di chi ha fatto la storia della famiglia: «Mio padre prese l’Inter e Gian Marco era un tifoso acceso. Allo stadio di Firenze, dopo una partita calda, un gruppo di tifosi assediò l’auto di papà, cercarono di ribaltarla, mio padre scese e tranquillamente disse: “Allora, che volete, che c’è?”, il gruppone si sciolse, immediatamente

Un’altra volta a San Siro un tipo agitato, armato di ombrello, continuava a insultare, papà si voltò e muovendo con forza il dito indice gli intimò di mettersi a sedere, aprendogli uno ad uno i bottoni della camicia». Poi ci sono i ricordi forti di San Patrignano, l’impegno trentennale di Gian Marco e ancora le coccole per Massimo, detto Mao: «Era un gran imitatore, avrebbe potuto fare l’attore, cantava anche, era il nostro Paperino, sempre in movimento, di qua, di là». Poi la voglia di dire, spiegare, promuovere la medicina alternativa, o meglio tradizionale, non farmacologica, con un atto di fede per il professore Giuseppe Marineo, bioingegnere e la sua macchina del dolore che in pochi secondi riproduce le cellule e restituisce la speranza di vita: «Come è accaduto con alcuni malati di Aids. Sono altri segnali del Padreterno».

Adriana strizza gli occhi, volgendo il suo piccolo viso al cielo, cercando forse quella cappa di santità, Yves scrive una poesia e Fabrice vuole sapere di Ibrahimovic mentre là fuori l’aria del Salento è di fuoco, come Milano che bruciava sotto le bombe. La storia dei Moratti continua.

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