Sono 120mila i sieropositivi di loro. E questa è la prima brutta notizia. La seconda è che la metà di essi - 60mila - non lo sanno. Si ritengono sane, non hanno sintomi che li inducono a preoccuparsi e quindi a controllarsi e quindi vanno avanti con la vita di sempre: compresi comportamenti sessuali che mettono a repentaglio la salute dei partner. È l'allarme lanciato da Stefano Vella, direttore del dipartimento del Farmaco dell'Istituto superiore di sanità, durante l'HIV Summit Italia 2009, in programma oggi a Roma e organizzato da un gruppo indipendente di esperti.
L'andamento dell'epidemia in Italia è ormai ben definito, e non lascia tranquilli. A una prima fase di «boom», con 60mila casa conclamati e con un anno di picco collocabile nel 1995, è seguita una fase di recessione grazie all'adozione di terapie antiretrovirali combinate sempre più potenti. Ma negli ultimi anni la curva epidemica è pressoché stabile. In pratica il numero di casi annuali non diminuisce. Ciò è in gran parte dovuto, spiega Vella, a di un ritardo nell'accesso alla terapia antiretrovirale, che è la seconda nefasta conseguenza della sieropositività «sommersa». Infatti, oltre il 60 per cento dei pazienti con una diagnosi di Aids non ha effettuato terapia antiretrovirale prima della diagnosi stessa. E questo è proprio la conseguenza dell'ignoranza della propria positività di cui sopra. «Infatti - dice Vella - se all'inizio degli anni Novanta solo una persona su cinque veniva a conoscenza del proprio stato di sieropositività al momento della diagnosi di Aids o poco prima», vale a dire nella «finestra» di sei mesi che precede la malattia conclamata, oggi questo avviene nel 60 per cento dei casi. E poco consola il fatto che il test ritardato non è solo un vizio italiano ma è comune a diversi Paesi europei. Di certo, il ritardo diagnostico è frutto di una serie di fattori di tipo demografico, comportamentale e psico-sociale, alcuni dei quali sono stati identificati. «Ad esempio, chi vive al Sud o nelle isole - dice l'esperto - ha una maggiore probabilità di arrivare tardi al test rispetto a chi vive al nord, mentre gli stranieri sono in assoluto coloro che hanno il rischio maggiore di arrivare tardi al test. Maggiore è la probabilità di test ritardato nei maschi e, soprattutto, nei non tossicodipendenti. Ciò ha sicuramente a che fare con una bassa percezione del rischio: una persona che ha acquisito l'infezione per via sessuale, a differenza di un tossicodipendente, non ritiene di essere a rischio di infezione, anche se ha avuto rapporti sessuali non protetti con persone di cui non conosceva lo stato sierologico».
L'aumento dell'Aids «sommerso» è colpa, secondo Giampiero Carosi, direttore dell'Istituto malattie infettive e tropicali dell'Università di Brescia e presidente della SIMaST, «in primo luogo della disinformazione della popolazione generale, per effetto della quale si confondono la riduzione dei nuovi casi di Aids con il pieno controllo della situazione». E questo, nella realtà, si traduce nel ridotto utilizzo del test HIV, sia per il timore di sottoporvisi (sono note le valenze sociali negative insite nella diagnosi di infezione), che per la scarsa attenzione del personale sanitario ai sintomi iniziali dell'infezione, spesso a causa di un approccio pregiudiziale. A ciò deve aggiungersi la difficoltà di definire oggi precise «popolazioni a rischio» di infezione, come invece accadeva quando l'infezione era soprattutto di pertinenza dei tossicodipendenti, e quindi di inquadrare gli obiettivi «mirati» di necessarie campagne informative. Anche l'incremento degli immigrati, spesso provenienti da Paesi pesantemente colpiti dall'epidemia, può giocare un ruolo rilevante, soprattutto per un più difficoltoso accesso al test e alle cure da parte di irregolari e clandestini e per il portato culturale esistente in molte popolazioni straniere.
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