Alberto: "Portatemi la foto di Chiara"

Non gli hanno permesso di tenere il peluche della ragazza. Implora gli avvocati: "Dimostrate la mia innocenza". Una cella singola al piano terra, una tovaglietta rosa sul tavolo e i libri dell’università

Alberto: "Portatemi la foto di Chiara"

Vigevano - La domanda, quasi imbarazzante, viene rivolta allo piscologo: «Potrei avere una foto di Chiara?». Certo, se Alberto Stasi è l’assassino della sua fidanzata, allora dev’essersi rivestito di una corazza resistente ad ogni sollecitazione. Ma se non fosse lui? Il rompicapo di Garlasco si trasferisce dietro le mura del carcere di Vigevano. Piano terra, cella singola, pareti smaltate di marrone, un letto, un tavolo su cui è appoggiata una tovaglietta rosa, i libri dell’università come compagni e superstiti testimonianze di una vita normale, quella che si è spezzata il 13 agosto e avrebbe dovuto andare avanti con la discussione della tesi, in Bocconi, ai primi di ottobre.

«L’ho visto molto provato», racconta il suo avvocato Giuseppe Colli, ma Alberto è un tipo tosto, uno che non molla, uno che comunque vada a finire questa storia sta dimostrando una tempra fuori dal comune. «Vi prego - dice a Giuseppe e Giulio Cesare Colli nel corso del colloquio - aiutatemi a dimostrare la mia innocenza». I difensori studiano quasi con curiosità quel giovane così risoluto nella sventura che sembra sommergerlo da tutte le parti: «Ci ha spronato ad andare avanti, a pesare con calma tutti gli indizi raccolti dall’accusa per rispondere colpo su colpo - riprende Colli -. D’altra parte se non ha commesso il fatto, prima o poi, speriamo presto, ne uscirà». Tattica di chi ha le spalle al muro?

Altro che crollo. Altro che pianto. Altro che confessione. A quarantaquattro giorni dal delitto, i carabinieri lo vanno a prendere: quarantaquattro giorni, esattamente gli stessi che separarono la morte del piccolo Samuele Lorenzi dalle manette alla mamma Annamaria Franzoni. Anche allora si pensò che la psiche della donna avrebbe ceduto. Non successe nulla.

Oggi il copione sembra ripetersi. Il fermo, di botto, con una procedura che disegna un sorriso amaro sul volto dei difensori: ma la mossa, studiata probabilmente per giocare sulla velocità e far cedere il presunto assassino, non funziona. Il ragazzo riprende metodicamente dall’ultimo degli interrogatori precedenti: alza il muro della sua presunta innocenza, affronta la prima notte in cella, si dispone a resistere. In carcere è arrivato con l’orsacchiotto di peluche, dono prezioso di Chiara. Non glielo fanno tenere. Pazienza.
Alle nove del mattino, don Florindo, il cappellano, lo vede seduto sul letto. Più attonito che disperato. Alberto fa colazione, chiede all’agente una brioche. La stanza è piccola, c’è un’inferriata alla finestra, le guardie lo sorvegliano 24 ore su 24. Lui parla con gli avvocati, chiede di poter vedere i genitori. Suo padre Nicola, al momento del blitz, ha perso le staffe e ha avuto un duro battibecco con una fotografa. Alberto no, anche se la prova è durissima. Nel pomeriggio gli stringe la mano un politico. Lui stila una sorta di referto: «Fisicamente sto bene, emotivamente sono uno straccio. Sono distrutto. Non ho bisogno di niente», e gli mostra quei testi di economia, ultimo ponte verso il piccolo mondo antico di Garlasco, sparito la mattina del 13 agosto.

Indossa una polo azzurra, pantaloni chiari, occhiali con la montatura scura. La faccia è un cencio bianco: quel volto da Harry Potter sbiancato che tutti hanno visto in tv e che, tanto per cambiare, divide gli italiani e la loro pretesa di risolvere lombrosianamente il caso. Niente giornali nè tv, in cella. Nel pomeriggio le televisioni rilanciano una sua frase, trasmessa all’esterno da un agente: «Il carcere non è poi così male». Che cosa è? Il guanto della sfida alle istituzioni? Una sorta di incoscienza? Forse, solo il tentativo di sopravvivere, minuto per minuto, alla tempesta che lo sovrasta da un mese e mezzo.

C’è da preparare una memoria difensiva, i Colli raccolgono le sue confidenze, i suoi sfoghi, le sue convinzioni. L’accusa ha fatto partire il colpo, lui, in qualche modo, si è disposto a pararlo. E a difendere la trincea che si è scavato. Il sentiero verso la libertà è stretto, sempre più stretto, ma dalle parti del collegio difensivo e, tutto sommato, anche nella cella singola del carcere di Piccolini, non si respira aria di disfatta. Si cerca una replica adeguata. Probabile, anzi scontato, che i penalisti abbiano spiegato ad Alberto le possibili tappe sul calendario: facile che il gip confermi il fermo, poi si dovrà attendere il Tribunale della libertà, poi si vedrà. Alberto Stasi metabolizza tutto.

Infine davanti allo psicologo, primo di una serie di specialisti che lo visiteranno in questi giorni, si cala definitivamente nei panni della vitima e si mostra per quello che sicuramente era fino al mese di agosto: un bravo ragazzo di paese, una personalità trasparente e non multistrato, un giovane dal diametro iscritto nei riti e nelle consuetudini rassicuranti della provincia. «Vorrei una foto di Chiara», è la domanda.

E naturalmente ciascuno è libero, prima che rotolino altre certezze, di scegliere la soluzione più banale o quella più raffinata: l’amore, la nostalgia lancinante che abbraccia anche la morte e ideizza il ricordo, o una lucida, quasi diabolica messinscena.

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