Aldo Nove "impugna" la poesia come rivolta

"Inabissarsi" è un viaggio ribelle costellato di grandi incontri, da Pagliarani a Calogero

Aldo Nove "impugna" la poesia come rivolta

Il primo poeta che ho conosciuto è stato Maurizio Cucchi. Sarà stato venticinque anni fa, forse di più, a Milano. Intendo: un poeta riconosciuto come tale, un poeta che pubblicava per case editrici importanti. Qualche mese dopo, Marco Merlin che dirigeva il trimestrale Atelier, uno dei grandi maestri del nostro tempo, tutto l'opposto degli attuali mestieranti, per questo vive nascosto mi avrebbe insegnato che un poeta non conta nulla, vale l'opera, la poesia. All'epoca, però, per me il poeta era consustanziale alla sua poesia. Dopo aver conosciuto Maurizio Cucchi pensai che se quella era la poesia italiana, la poesia italiana non mi piaceva. Una strana, grigia, rattenuta ira alterava i suoi tratti da burocrate del verbo; era indaffarato in una costante, livida chiacchiera. A sedici anni rubavo i soldi dalla borsa della nonna per comprarmi le poesie di Dylan Thomas nella Nuova Universale Einaudi; ero stato da poco iniziato a Hölderlin: del rasoterra dell'oggi mi interessava l'urlo, l'iliadico strascico, un lascito in ascesi.

Più tardi, affibbiai a ogni poeta che ho conosciuto, a ogni poeta riconosciuto, una bestia araldica. Davide Rondoni: cinghiale. Giancarlo Pontiggia: volpe (per quella scaltrita eleganza nel dire, per lo stare ai margini). Silvia Bre: fauna faina. Milo De Angelis: un leone di nome Mida. Gian Ruggero Manzoni: Minotauro. Uno dei poeti più poeti che ho conosciuto si chiamava Gianni Fucci: nome dantesco, sodale di Raffaello Baldini e di Tonino Guerra, pareva un totem di pietra. È morto nel febbraio del 2019, il feretro esposto nella sala del consiglio comunale del suo paese, Santarcangelo di Romagna. Aveva novant'anni: in un poema ariostesco, Rumàn (Il Vicolo, 2011), ha raccontato, in dialetto, la sua vita. Gli piaceva ricordare che sul divano di casa sua aveva dormito Andrea Zanzotto. Zanzotto aveva il volto di un gheppio; Silvio Raffo, invece, mi sembrò un fenicottero. Mi aveva inviato tra le sue spire, molto tempo fa, Angelo Crespi. Raffo venne a prendermi alla stazione di Varese con una spider gialla; mi riempì di libri, ne fui atterrito. Silvio Raffo è stato l'insegnante di italiano di Aldo Nove al Cairoli di Varese, «si vestiva da cartone animato e oltrepassava magistralmente le dicerie sulla sua omosessualità, spingendo il più possibile l'acceleratore sull'essere diverso in toto, e quindi violentemente poeta».

Nel repertorio dei poeti impilati da Aldo Nove in Inabissarsi (il Saggiatore, pagg. 224, euro 18), «una sorta di ineguagliabile tesoro», spiccano «il maestro Franco Buffoni e il mio adorato Milo De Angelis», ci sono Nanni Balestrini e Amelia Rosselli, in fotografie che li ritraggono bambini. Non so sia giusto incontrare i poeti da vivi: i poeti deludono al cospetto della loro poesia ed è giusto così. La poesia, per esistere, chiede il sacrificio del poeta, del tutto inadatto ai suoi versi: altri li abitino, come stanze, altri se ne rivestano. Chi, poi, può dirsi davvero poeta, da vivo?

Quando parlo al telefono con Aldo Nove, lui mi chiama «brillo» e ne splendo. Sono a casa di Nicola Crocetti, via Falck, Milano, per decenni sede della Crocetti Editore. «Nicola Crocetti emerge come un titano dietro la sua immagine pubblica inesistente», ha scritto Aldo Nove. Ha ragione Aldo Nove ha sempre ragione, è un illuminato. Da tempo, in Calabria, Aldo Nove lavora per far risorgere l'opera di Lorenzo Calogero, un poeta straordinario, un poeta-lupo, medico per un po', incapace di stare nei ranghi dell'oggi. Morto nel 1961, sideralmente a distanza dal mondo dei letterati & dei poeti, fu scoperto da Leonardo Sinisgalli, che amava quell'«opera così serrata migliaia e migliaia di versi», ideata da un «autore che ha pagato caro la sua follia: venti anni di vita oscura, senza amici, senza complici». Nel 1966 le sue Opere poetiche sono state stampate da Lerici, poi più nulla, o quasi. L'anno scorso le edizioni Lyriks hanno pubblicato una selezione di Poesie scelte; l'ultimo numero di Poesia (n.30, Marzo/Aprile) è dedicato proprio a Calogero, «Il poeta assoluto»; spicca un saggio di Aldo Nove.

Quando scrive di Calogero, Nove ci spiega che il poeta si «è liberato» del quotidiano, «una trappola», «inabissandovisi completamente, come un autentico straniero. Non ne capiva la lingua, e dunque come pochi riescono a farla la ricreò, la vita, la poesia, nei suoi versi». Nelle prime pagine di Inabissarsi, Nove scrive con una risolutezza glaciale che «la poesia non salva la vita. La mette in gioco completamente. Fino a sua completa consunzione». Scrive che «una vita senza poesia è la trasformazione in atto dei cittadini, o meglio degli umani, in automi obbedienti e non pensanti». Ha ragione. Il linguaggio del potere agisce per semplificazioni e seduzioni la poesia è il linguaggio della potenza, è l'uomo che sprigiona se stesso dalla prigione in cui lo obbligano.

In un paragrafo, Nove racconta di quando ha accompagnato Elio Pagliarani «a comprare le arance». Credo che Inabissarsi sia una sorta di Trattato del ribelle da brandire in questi orrendi, straordinari tempi. Voltarsi al bosco, cioè: rivoltarsi nella poesia. «La lingua può trovarsi in piena decadenza e il poeta venire fuori come un leone dal deserto», scrive Jünger. Poesia: addestramento alla lotta. «È in grazia della lingua che il poeta occultamente governa un mondo i cui singoli elementi possono rinnegarlo, possono aver dimenticato la sua esistenza», scrive Hugo von Hofmannsthal in un libro, L'ignoto che appare (stampa Adelphi), che per vertigine va affiancato a Inabissarsi.

In realtà, quando scrivo ad Aldo Nove è per avere notizie di un poeta di cui nessuno ricorda, un poeta che vorrei far ripubblicare, Ivano Fermini. Ci vuole coraggio a inchinarsi di fronte ai grandi, misconosciuti poeti e Inabissarsi è anche un inginocchiatoio, ha anche questa sacralità. Di Fermini si sa nulla: nato a Bolzano, morto nel 2004, «ha vissuto per decenni coi genitori». A Milano, ha fatto per un po' l'operaio, fu tra gli accoliti di Niebo, la rivista ideata da Milo De Angelis. «Aveva degli enormi baffi neri», ricorda Aldo Nove. Le sue poesie, riassunte in due libri assiderati nell'oblio, Bianco allontanato (1985) e Nati incendio (1990), sembrano giungere da un altro mondo, «dove tutto è primordiale. E succede per la prima volta» (Nove).

Scrive cose così, Fermini, pitagoriche al dire odierno: «la rotazione di una parola che non è che polvere/ cade davanti/ forse si disfano le ciglia forse si ampliano le foglie/ si toccano camminano duramente». Poi, naturalmente, «non lo vedemmo più».

Forse perché un poeta si avveri deve svanire. Inabissarsi è un libro pericoloso, è un libro che inaugura una rivolta.

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