Giù dall'Everest con lo snowboard e Marco Siffredi scompare nel nulla

Successe nel 2002, quando lo sportivo francese aveva appena ventitre anni. Gli sherpa lo consigliarono di non farlo, ma lui voleva andare oltre i propri limiti

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L'ultima immagine che abbiamo di lui lo vede avvolto in una voluminosa tuta termica giallo fosforescente, la tavola da snowboard già allacciata agli scarponi, lo sguardo verso il letto di neve e nuvole sottostante. Una schiuma assolutamente indecifrabile. Era il 9 settembre del 2002 e lui, Marco Siffredi - atleta francese appassionato di discese estreme - sarebbe svanito nel nulla da lì a poco.

Lo snowboard e le scalate: passioni irresistibili

Era nato nel 1979 a Chamonix, Siffredi. Veniva da una famiglia di alpinisti, che lo aveva contagiato. Il padre guida alpina, il fratello - molto più grande di lui - scalatore esperto che però aveva tragicamente trovato la morte un brutto giorno del 1981, inghiottito da una valanga. Quello che Marco faceva era anche per lui, per onorare la sua memoria. Gli avevano regalato una tavola da snowboard all'età di sedici anni e lui non l'aveva più mollata. Solo che non si sarebbe trattato di usarla per qualche placida discesa nel grembo di località turistiche. Lui aveva altri piani.

Enfant prodige: scende dal Monte Bianco a 17 anni

Siffredi è un talento che non può essere rinchiuso sotto ad una teca di cristallo. Così, a soli 17 anni, scala il Monte Bianco e scende per tutti i percorsi classici. La sua natura lo porta ad alzare costantemente il tiro. Ogni volta che compie un'impresa alza le spalle: deve subito farne un'altra più grande. Appena maggiorenne affronta la Mallory all’Aiguille du Midi, mille metri di dislivello. A diciannove vola in Perù: con Philippe Forte e René Robert sale e scende con la tavola il Tocilarajo, oltre 6mila metri d'altezza. Fermarsi un attimo è un'ipotesi semplicemente non contemplata. Va sull'Himalaya e risale il Dorje Lhakpa (6988 m) scendendo anche qui con la tavola. Nel Duemila si cimenta con l'Huayna Potosí, insidiosa cima boliviana (6088 m). Nell’autunno del 2000 raggiunge poi il primo Ottomila, il Cho Oyu. Ma ancora non basta. Vuole di più. Vuole il sovrano delle vette.

Con lo snowboard sul monte Everest

Primavera del 2001. Marco ha deciso che è arrivato il momento di sfidare l'Everest. Arriva in cima con l'aiuto dell'ossigeno e due sherpa, poi allaccia la tavola e inizia la discesa. Il freddo intenso provoca subito problemi sparsi e deve fermarsi, per poi ripartire. Scende fino a 6400 metri, indenne, nonostante la scarsa visibilità e l'assenza di un percorso sicuro: è il primo essere umano al mondo a farlo, insieme all'austriaco Stefan Gatt, che lo ha preceduto due giorni prima. Nell'autunno del 2001 prova a guadagnarsi la vetta dello Shisha Pangma, ma i venti sono talmente forti che lo costringono a fermarsi a 7mila metri di quota, da dove scende.

Settembre 2002: dissolto nel nulla

Marco Siffredi rilancia di continuo. Ora intende diventare il primo uomo in grado di scendere dall’Hornbein Couloir, sul versante nord del monte Everest. Partito da Kathmandu nei primi giorni dell'agosto 2002, il 9 settembre è in vetta, accompagnato da tre sherpa. Le condizioni non sono ideali e gli viene consigliato di evitare la discesa. Figurarsi: ha fatto tanta strada per arrivare qui. Non si tirerà indietro. Sotto c'è un canale stretto e ripido, quello in cui dovrebbe infilarsi. Non si vede nulla però. Una calotta bianca di nuvole e neve copre gli occhi e i pensieri. Siffredi resta là sopra per un'ora circa, poi scende. Da quel momento nessuno l'ha più rivisto. Al campo base non farà mai ritorno. Il giorno dopo una cordata di alpinisti va a cercarlo, ma trova soltanto quella che sembra essere la scia dello snowboard.

Un suo amico stretto dirà: "Si è addormentato nella neve". Il suo corpo non è mai più stato ritrovato, ma giace ancora lì, da qualche parte. La sua ricerca estrema di libertà è sopravvissuta alla morte.

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