Hurricane, la vera storia del pugile accusato di omicidio

Nel 1967 il potenziale campione afroamericano Rubin Carter finì all'ergastolo con l'accusa di triplice omicidio: Bob Dylan ne prese pubblicamente le difese, scrivendo una canzone leggendaria

Rubin "Hurricane" Carter - Wikipedia
Rubin "Hurricane" Carter - Wikipedia
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Mentre percorre le strade di mezza Francia divora avidamente quelle pagine. Si mette a leggere nei caffè, nei ristoranti e pure dentro le camere d'albergo. Quando finisce, comprende che deve fare qualcosa. Così Bob Dylan alza la cornetta del telefono, gira la rotella per comporre il numero della sua etichetta discografica ed esordisce sicuro:"Ho un'idea per una nuova canzone". Poi riaggancia e stringe nuovamente la biografia del pugile "Rubin Carter - per tutti Hurricane" tra le dita: è l'incipit di una battaglia che finirà soltanto undici anni dopo.

Il film su questa storia, "Hurricane - Il grido dell'innocenza", va in onda stasera, 16 ottobre, alle 23.45 su La7.

Per contestualizzare tocca riavvolgere ulteriormente il nastro. Bisogna tornare al tragico mattino del 17 giugno del 1966, precisamente alle 2.30. Il posto è il Lafayette Bar and Grill a Paterson, New Jersey. Coda di una notte lunga che sta per trasformarsi in alba. Ultime birre pretese sul dorso del bancone umido, ultime chiacchiere, ultimi saluti. Non è una di quelle occasioni in cui ti aspetti di poter morire da un momento all'altro. La vita però è un posto strano. Un attimo sei lì che scherzi e qualche istante dopo ti ritrovi disteso per terra, in una pozza di sangue.

Due persone, afroamericani secondo le prime ricostruzioni, hanno fatto irruzione aprendo il fuoco. Uccidono due uomini e feriscono gravemente una donna, che morirà in ospedale un mese più tardi. Un quarto avventore viene preso di striscio: se la caverà, ma perderà la vista da un occhio. Premessa doverosa: Paterson, al tempo, è esattamente il tipo di posto in cui non ti vorresti trovare se la tua pelle non è bianca. La città è percorsa da anni da manifestazioni della comunità afro, che accusa la polizia di soprusi costanti.

Lampeggianti che ora incidono il buio color petrolio. Macchine costrette ad accostare. Manette per un tizio che di nome fa John Artis e per Rubin Carter. Singolare che la soffiata sia giunta da un noto malvivente, Alfred Bello, che si trovava in zona per fare una rapina. Nessuno li ha visti in volto. Però in galera ce li sbattono lo stesso. Pesa come un macigno, secondo una parte della stampa dell'epoca, il fatto che Carter abbia assunto una posizione radicale contro la polizia bianca anni prima, quando un agente aveva pestato a morte un ragazzino afroamericano.

L'accusa, pesantissima, è di triplice omicidio. La condanna, che arriva puntuale dopo un processo frettoloso, è monumentale: carcere a vita. Roba capace di disintegrare un'esistenza. Nel caso di Carter, che all'epoca ha soltanto trent'anni, anche una carriera. Rubin si muoveva infatti con disinvoltura nel circuito dei pesi medi. A boxare aveva iniziato presto, subito strappando un'attenzione dilagante tra gli addetti ai lavori. Il pubblico se n'era invaghito per la potenza con cui riusciva a sferrare i suoi pugni. Un particolare che gli era valso il soprannome di "Hurricane".

In carriera, fino a quel momento, poteva vantare 27 vittorie, un pareggio e soltanto dodici sconfitte. Aveva anche sfidato il campione dei medi e si avviava alla maturità sportiva più completa. Adesso, però, le sbarre avrebbero inibito il pugile che poteva ancora essere. Il prossimo potenziale campione del mondo languiva in una cella angusta.

Quando Bob Dylan scrive "Hurricane", la canzone che racconta la sua vicenda, Carter è in carcere da otto anni. Il pezzo viene registrato nell'ottobre del 1975, come prima traccia dell'album Desire. Dylan non si è soltanto letto tutta la Bio. Ha anche deciso di andare trovare Rubin in carcere. Adesso che è persuaso dalla sua innocenza smuoverlo è un'impresa intricata, ma gli avvocati della Columbia Records riescono comunque a convincerlo che è meglio proporre un'altra versione della canzone. Una dove non si fanno pubblicamente tutti i nomi.

La campagna della star per riaprire il processo di Hurricane, comunque, è partita. Dylan racconta la storia in ogni tappa del suo tour, che conosce il suo apice al Madison Square Garden di New York, nel dicembre del 1975, con una vera e propria nottata dedicata al pugile. Lo tsunami mediatico sortisce l'effetto desiderato. Carter è stato condannato da una giuria di soli bianchi e il processo va riaperto. L'esito però è atterrente: anche in seconda battuta viene condannato all'ergastolo.

Bob Dylan
Bob Dylan in concerto - Ansa

Adesso pare davvero finita. Dylan e la sua casa discografica, intanto, devono respingere al mittente pesanti accuse di diffamazione. Gli avvocati di Carter però non desistono e si appellano alla Corte Federale. Nel 1985 il giudice Haddon Lee Sarokin riconosce che Hurricane ha subito una condanna basata su motivazioni razziali: l'uomo che avrebbe potuto diventare campione del mondo uscirà tre anni dopo, nel febbraio del 1988.

Da quel momento, e fino alla morte, sopraggiunta nel 2014, Carter si occuperà di diritti dei carcerati.

Nel 1999, sulla sua storia, verrà basato anche un film di culto (stasera in tv) con Denzel Washington protagonista, "Hurricane - Il grido dell'innocenza". Un pezzo di vita ormai è andato. Le battaglie però durano per sempre.

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