Abituati alle baruffe chiozzotte dello sport nostrano, verrebbe da domandarsi cosa c’entri mai la guerra con lo sport. Dall’altra parte dell’Atlantico, invece, queste cose vanno spesso a braccetto. Se la memoria va al passato, quando i campioni erano arruolati per vendere i prestiti di guerra, le cose non sono cambiate troppo ai nostri tempi. La tentazione di quello che i critici chiamano “complesso militare-industriale” di appropriarsi degli idoli del pubblico per portare avanti le loro politiche è talvolta irresistibile. Ogni tanto, però, questi tentativi si rivelano degli autogol clamorosi.
La storia di un giocatore di football che, dopo gli attacchi dell’11 settembre, decise di gettare alle ortiche la sua carriera per arruolarsi nell’esercito sembrava perfetta per portare acqua al mulino della guerra. In realtà le cose andarono in maniera molto diversa. Il campione perse la vita in Afghanistan in circostanze molto sospette e la sua vicenda è stata oggetto di inchieste parlamentari ed infinite polemiche. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porterà in Arizona per raccontarvi la storia di Pat Tillman, il giocatore dei Cardinals che morì in guerra ucciso dai propri compagni d’armi.
Dalla NFL all'Afghanistan
La vicenda umana di Patrick Daniel Tillman sembrava uguale a quella di tanti ragazzi americani cresciuti a pane e Stars and Stripes. Nato il 6 novembre 1976 a San Jose, in California, il più grande di tre fratelli aveva dimostrato di sapersela cavare egregiamente sul campo da football. Dopo aver guidato la squadra della sua high school ad un titolo statale, si guadagnò una borsa di studio alla Arizona State University. Con la maglia dei Sun Devils, certo non una superpotenza della NCAA, era stato protagonista di una stagione senza sconfitte, conquistando il titolo di MVP nel 1997. Dopo una carriera del genere, era riuscito ad entrare nel draft della NFL, venendo selezionato dalla squadra di Phoenix, gli Arizona Cardinals. Tillman era un difensore della linea secondaria, un safety molto fisico, un ruolo critico che può fare le fortune di una squadra. Ci mise poco a farsi strada, placcaggio dopo placcaggio, riuscendo a battere il record della franchigia nella stagione 2000.
Fino a qui la sua sembrava una storia uguale a quella di tanti altri giovani talenti del football professionistico ma tutto cambiò in una sola mattinata, quella dell’11 settembre 2001, passata con gli occhi inchiodati al televisore vedendo quegli aerei di linea che si infilavano come coltelli nel burro delle Torri Gemelle. L’impatto su Tillman fu enorme. Il giorno dopo, intervistato dalla NBC, disse che “il mio bisnonno era a Pearl Harbor, buona parte della mia famiglia ha combattuto per questo paese nel passato. Io, invece, non ho fatto niente, non mi sono messo in gioco come hanno fatto loro”. Il seme della decisione che lasciò attoniti gli appassionati di sport era stato messo. Nel maggio del 2002 decise di rifiutare l’estensione di tre anni del contratto che gli avrebbe portato in tasca 3,6 milioni di dollari per arruolarsi nell’Esercito.
Pat e suo fratello Kevin decisero di entrare nei Rangers, un reparto d'élite specializzato in operazioni chirurgiche su obiettivi difficili. Dopo il lungo addestramento vennero assegnati al 75° Reggimento, per poi essere schierati in Iraq nel 2003. Qui, però, la personalità di Pat iniziò a creare problemi: non aveva problemi ad andare in Afghanistan, dove si nascondevano i mandanti degli attacchi all’America. La guerra in Iraq, invece, non lo convinceva. Invece di andare a prendere Osama bin Laden e consegnarlo alla giustizia, si ritrovò in Iraq a setacciare il paese a caccia delle fantomatiche armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. La cosa non gli andava affatto a genio. L’anno dopo, fu finalmente assegnato in Afghanistan, ma non ebbe tempo di compiere la missione che si era proposto. Poche settimane dopo, sarebbe infatti morto a soli 27 anni, un evento che avrebbe sconvolto l’intera America.
Una morte molto sospetta
Appena arruolato, Pat iniziò a notare come la guerra fosse molto diversa da quanto veniva riportato dai media. Assegnato ad un reparto che si occupò della liberazione dell’elicotterista Jessica Lynch, si accorse di quanto la storia fosse stata gonfiata ad arte. Se i rapporti parlavano della Lynch “in pericolo di vita”, in realtà era stata curata da dottori iracheni in un ospedale. La stessa soldatessa avrebbe poi parlato di come i media avessero riscritto la storia. Nel 2007, davanti ad una commissione d’inchiesta del Congresso, disse: “Non capisco perché abbiano deciso di mentire e trasformarmi in un’eroina. Gli eroi sono stati i miei commilitoni. La realtà della guerra è spesso complicata ma molto più eroica delle storie dei media”. Pat era disgustato.
Non lo sapeva ancora, ma pochi mesi dopo sarebbe stato proprio lui ad essere oggetto di una manovra altrettanto discutibile. Quando il 22 aprile 2004 si diffuse la notizia della sua morte, l’immagine dipinta dall’esercito fu fin troppo perfetta. Tillman sarebbe morto, ucciso dal fuoco dei Talebani durante un’imboscata nella provincia di Khost, nell’Afghanistan sud-orientale. L’ex stella della NFL si sarebbe lanciato, fucile in mano, su per una collina per costringere il nemico alla ritirata, salvando la vita di dozzine di suoi commilitoni. Nel giro di poche ore, l’ex Cardinal era diventato un’eroe nazionale, insignito di varie onorificenze. Il suo funerale, avvenuto il 3 maggio, fu trasmesso in diretta televisiva, con il futuro candidato alla presidenza John McCain, veterano della guerra del Vietnam, a pronunciarne l’orazione funebre. Eppure la famiglia era convinta che non gliela stessero raccontando giusta. Le cose, infatti, erano andate in maniera molto diversa.
A caccia della verità
Poco più di un mese dalla sua morte, l’Esercito americano fu costretto ad ammettere la verità. Pat Tillman non era stato ucciso dai Talebani ma dai suoi compagni d’armi. La madre di Pat, Mary, disse che tutti i soldati presenti sul posto erano ben consci di come andarono le cose. La faccenda divenne molto più complicata, tanto da dare origine a mille congetture. Il risultato dell’autopsia rivelò come Pat fosse morto per tre colpi di fucile automatico alla testa da distanza ravvicinata, senza che fosse stata verificata la presenza di Talebani nell’area. Nel 2007 emerse un rapporto dei medici che provarono a convincere le autorità ad iniziare un’inchiesta sull’avvenuto, visto che “le prove mediche non corrispondono alle circostanze descritte nel rapporto ufficiale”.
Nonostante i dubbi, l’inchiesta non fu imbastita ed i documenti nascosti al pubblico per anni. In maniera ancora più sospetta, gli effetti personali dell’ex campione furono tutti bruciati, inclusi i suoi diari. Il fratello Kevin era anche lui impegnato nella stessa missione ma non era nello stesso plotone, quindi fu tenuto all’oscuro di tutto. La famiglia Tillman passò anni a lottare perché emergesse la verità, coinvolgendo lo stesso Congresso. Secondo la biografia scritta da Jon Krakauer, Pat disse che “se dovessi morire, non voglio che mi facciano un funerale di stato”, esattamente quello che sarebbe successo. La questione divenne altamente politicizzata, specialmente quando Bryan O’Neal, l’ultimo a vedere vivo Pat Tillman, dichiarò alla commissione parlamentare che i suoi superiori gli avevano imposto di tacere la verità alla famiglia e ai media.
Nel luglio 2007 un importante comitato della Camera accusò il Pentagono ed alcuni membri di alto rango dell’amministrazione Bush di aver nascosto la verità al pubblico. Sebbene non siano stati in grado di provare alcun reato, sono molti a credere che l’ex campione di football sarebbe stato in realtà ucciso per le sue idee sulla guerra in Iraq. Una conspiracy theory che, nonostante tutto, continua a trovare molti seguaci in America.
Un'icona controversa
Nonostante i media l’avessero dipinto come un eroe all-American, buono per i manifesti per il reclutamento nelle forze armate, Pat Tillman era molto lontano da questa immagine da cartolina. Prima di tutto era un ateo e un pacifista che non aveva problemi a far sapere ai suoi commilitoni quanto trovasse discutibile quella guerra. Molti hanno detto che non aveva davvero nemici ma la sua tendenza a parlare troppo non era apprezzata, specialmente vista la sua popolarità. Nel 2004 iniziarono a circolare delle voci sul fatto che Tillman fosse pronto a rendere pubblica la sua opposizione alla guerra, in un’intervista televisiva con lo studioso di sinistra Noam Chomsky. Niente del genere avvenne davvero ma il tempismo dell’incidente in Afghanistan ha fatto sollevare molti sospetti.
Probabilmente nessuno saprà veramente come sono andate le cose, ma una cosa è certa: Tillman ne aveva abbastanza della guerra e considerava l’occupazione dell’Iraq “illegale”. Morì prima di poter parlare; una coincidenza piuttosto singolare. La famiglia lottò per anni per fare chiarezza sulle tante ombre e sulle menzogne dette negli anni, continuando anche oggi a chiedere che la verità emerga. La madre di Pat non mena il can per l’aia. “Non c’entra Pat, è quello che hanno fatto a lui e all’intera nazione. Creando queste storie farlocche non fate che rendere banale il loro eroismo. Le cose non sono sempre lineari, precise, belle da vedersi ma la guerra è proprio così. È orribile, sanguinosa, dolorosa. Provare a trasformarla in un’epopea gloriosa è un disservizio alla nazione”.
La polemica al Super Bowl
Nonostante la vicenda risalga a quasi vent’anni fa, la storia di Pat Tillman continua a creare polemiche. Quando nel recente Super Bowl, giocato proprio nello stadio dei Cardinals, la NFL ha deciso di celebrare la vita del campione patriota, le reazioni negative non sono mancate. Quando quattro beneficiari delle borse di studio della fondazione a memoria del campione sono stati scelti come capitani onorari del sorteggio, i telespettatori hanno sentito come Tillman avesse “abbandonato la carriera nella NFL per arruolarsi nei Rangers, dove morì servendo il suo paese”. Nemmeno una parola sul “fuoco amico”, niente sulle sue idee contro la guerra, sulle menzogne dette alla famiglia. Il fuoco di fila da parte della sinistra è stato impietoso. L’autore Andrew Maraniss ha twittato: “Sto scrivendo un libro per i bambini delle elementari sull’argomento e dentro c’è molta più verità di quanto abbia detto la NFL al Super Bowl”.
La risposta di Kevin Tillman è stata davvero sardonica: “Per qualche ragione ci hanno mandato ad invadere un paese perché sarebbe stata una minaccia al popolo americano. Poi ci hanno detto che era un pericolo per il mondo, che dava rifugio ai terroristi, era stato coinvolto negli attacchi dell’11 settembre, aveva ricevuto uranio dal Niger, aveva laboratori mobili, armi di distruzioni di massa, doveva essere liberato, doveva trasformarsi in una democrazia, fermare l’insurrezione, bloccare una guerra civile che abbiamo fatto noi che, però, non possiamo chiamare così. Una roba del genere”. La cosa forse più triste è che le cose siano finite proprio come temeva Mary Tillman, madre coraggio che non si è mai arresa. Quando fu intervistata dalla rivista Sports Illustrated, puntò il dito sul ministro della difesa dell’epoca, Donald Rumsfeld, colpevole a suo dire di aver insabbiato la verità sulla sua morte. “Si sono prima fatti belli col suo coraggio per poi scaricarlo. Non gli importava niente di Pat come persona. Essere usato per portare avanti una menzogna gli farebbe orrore. Non mi importa se mi entreranno in casa per farmi tacere. Non mi fermerò mai”.
La vera eredità di Pat
Non tutto della vicenda terrena del campione patriota è però negativo. Forse l’eredità più importante di Pat Tillman è proprio la fondazione promossa dalla famiglia e dai suoi tanti ammiratori. La Pat Tillman Foundation si è impegnata nel raccogliere fondi per fornire borse di studio alle famiglie di chi abbia servito con le forze armate americane per garantirgli di poter pagare le pesanti rette universitarie ed esprimere tutto il loro potenziale. Da quello che si legge dal sito della fondazione, chi ha ricevuto le borse di studio si sta impegnando a trovare soluzioni alla scarsità di acqua potabile, ai diritti umani, fino alla sicurezza nazionale. Grazie all’esempio di Pat, insomma, i leader della nuova generazione starebbero facendo la differenza, cambiando il mondo in meglio, un passo alla volta. Forse è questo il modo migliore per ricordare un campione diverso dagli altri, che credeva in qualcosa più grande di sé stesso ed aveva dedicato la sua vita a questi ideali di giustizia.
Grazie all’impegno di tanti donatori, la fondazione ha raccolto decine di milioni di dollari, ispirando tutti a vivere la propria vita al massimo, rispettando quei principi che avevano guidato la sua vita. Prima di tutto il servizio agli altri e alla comunità, sia vestendo l’uniforme che da civili. Poi l’impegno nell’educazione continua, dentro e fuori l’università, cercando di migliorarsi giorno dopo giorno. La determinazione nel guidare gli altri attraverso il proprio esempio, senza mai montarsi la testa o dare spazio ad ideologie varie. Infine la voglia di unire gli altri per riuscire a portare avanti iniziative che riescano ad avere un impatto nel mondo di oggi e di domani. Una delle frasi più famose di Pat Tillman riassume bene la sua straordinaria esistenza: “lasciarsi prendere dalle proprie passioni è umano, è giusto ed è l’unico modo in cui voglio vivere”. Poche parole che lasciano intuire quanto complessa fosse la figura di questo campione sui generis.
Nel bene o nel male, una storia come la sua è un segno dei nostri tempi, di come allo
stesso tempo si possano avere vette di idealismo ed abissi di pressappochismo. Comunque la pensiate a riguardo, è stata una vicenda davvero unica, una delle tante cose che possono succedere solo in America.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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