Parlare di sport in America vuol dire che, prima o poi, tocca affrontare il proverbiale elefante nella stanza: i soldi. Sebbene i nostalgici dello sport di una volta non facciano che lamentarsi della deriva commerciale di questa o quella disciplina, difficile immaginare un universo dove il dio denaro sia venerato senza alcun falso pudore. Fare soldi è visto come il fine ultimo dello sport professionistico. Invece di scatenarsi col ditino alzato di fronte al mega-stipendio di questo o quel campione, ci sono tifosi che protestano quando non aumenta lo stipendio al loro idolo. Questo spiega, forse, perché dall’altra parte dell’Atlantico una franchigia che faccia debiti come troppe squadre nostrane sarebbe vista come un’aberrazione da condannare senza se e senza ma.
Alle volte, però, la cosa rischia di sfuggire di mano. 34 anni fa, ad esempio, un ex giocatore di football che aveva fatto qualche soldo riuscì in un’impresa quasi impossibile: comprare per una cifra da record la squadra più famosa, quella che molti continuano a considerare America’s Team. Da allora ha vinto poco ma è riuscito a guadagnare cifre che farebbero impallidire i proprietari delle squadre di Serie A. Ecco perché questa settimana “Solo in America” vi porta nella sterminata metropoli di Dallas per raccontarvi come Jerry Jones riuscì a comprare i Cowboys e trasformandoli nella franchigia più ricca del pianeta.
L’affare del secolo
Per mia fortuna ho passato diverso tempo nel cosiddetto Metroplex, l’immensa conurbazione del nord del Texas che unisce le città di Dallas, Fort Worth e parecchie cittadine dell’hinterland. Per farvi capire quanto è grande, per andare dall’aeroporto internazionale a casa di un mio amico ci sono volute quasi due ore di autostrada, tutte senza uscire dall’area interna della megalopoli. La visita al gigantesco AT&T Stadium di Arlington, gioiello nella corona dei Cowboys, è stata un’esperienza quasi surreale: una vera e propria astronave, costata più di un miliardo di dollari, con un mega-schermo lungo 50 metri sospeso al soffitto e soluzioni tecnologiche che sembravano fantascientifiche, a partire dal tetto retraibile. Nel 1989, le cose per la famosa franchigia resa popolarissima da una serie di vittorie incredibili sembravano però volgere decisamente al peggio.
Dopo le tante vittorie nello storico Cotton Bowl, il passaggio al nuovo Texas Stadium di Irving, nel 1971, aveva segnato l’epoca più bella e allo stesso tempo più complicata per la squadra più titolata del Lone Star State. I trionfi della prima era Landry avevano lasciato il posto ad una serie di stagioni dimenticabili, tanto da far pensare a molti che i giorni migliori dei Cowboys erano alle loro spalle. L’impianto di Irving era bello, ma era invecchiato male e, soprattutto, costava un patrimonio. Dallas non riusciva più a vincere e continuava ad accumulare debiti. Tutto cambiò dopo la fine della stagione 1988-89, una delle più disastrose di sempre: dopo aver iniziato con un paio di vittorie, i Cowboys di Landry infilarono dieci sconfitte consecutive, nonostante l’arrivo del promettente ricevitore Michael Irvin. La vittoria in trasferta contro i Redskins sembrò il canto del cigno dell’uomo col cappello, la fine di un’era che sembrava eterna. Qualcosa doveva cambiare e in fretta.
Pochi, però, si sarebbero immaginati che l’uomo a segnare la rinascita dei Cowboys sarebbe stato un ex giocatore di football universitario, un offensive lineman che aveva vinto il titolo nazionale con Arkansas nel 1964. Quando si presentò nell’ufficio di Harvey Bright e Stemmons Freeway, i proprietari dei Cowboys, mise sul tavolo un pezzo di carta con una cifra inaudita per l’epoca: 140 milioni di dollari. Quella stretta di mano del 25 febbraio 1989 avrebbe cambiato la storia della franchigia ma Jerry Jones si era indebitato fino ai capelli. 34 anni dopo, per comprare i Dallas Cowboys non basterebbero 10 miliardi di dollari. Anche considerando l’inflazione, è stato davvero l’affare del secolo.
Un business di famiglia
La storia di come questo uomo d’affari che aveva fatto fortuna con l’industria petrolifera si ritrovò proprietario della squadra più ricca del pianeta è piena di episodi e curiosità. Per celebrare i 30 anni dall’affare, uno dei giornali principali del Texas, il Dallas Morning News, dedicò un articolo ai tanti retroscena che coinvolsero la famiglia di Jerry Jones, coinvolta fin da subito nella rischiosa impresa. La figlia Charlotte ricorda come, cinque settimane prima della firma, il padre ed il figlio maggiore fossero a San Diego per una conferenza quando lessero che i Cowboys erano in vendita. Il patriarca si mise a fare qualche chiamata, decidendo di andare direttamente a Dallas per verificare i conti della franchigia. Invece di tornare a Little Rock, Jerry decise di usare l’inaugurazione del presidente George H.W. Bush per indire una riunione di famiglia: non si sarebbe mai lanciato in un’impresa tanto rischiosa senza avere l’assenso della moglie e dei tre figli.
Prima di prendere la macchina ed andare al ballo di gala presidenziale, fece scoppiare la bomba: voglio comprare i Dallas Cowboys. Il figlio Jones ricorda la reazione della famiglia: “Pensavamo fosse impazzito, perché sulla carta era un pessimo affare. Ma, guardandolo, capimmo che se c’era una persona al mondo capace di rendere quella squadra un successo era lui. La sua passione ed energia erano incredibili”. Nelle due ore, Jerry spiegò come gli analisti finanziari si fossero detti contrari e quanto lavoro ci sarebbe voluto da parte di tutti per far funzionare un azzardo del genere. La moglie Gene ricorda chiaramente quanto fossero nervosi: “Sapevamo che le nostre vite non sarebbero mai più state le stesse”. Dopo un fine settimana di discussioni serrate, presero la decisione più importante della loro vita.
34 anni sono volati in un batter di ciglia, ma di cose ne sono successe davvero tante: tre Super Bowl vinti, uno stadio tra i più belli al mondo, un centro di allenamento all’avanguardia e tanti, tantissimi soldi. Jerry non nasconde la sua soddisfazione: “Non ho lavorato un giorno in questi trent’anni. Ogni giorno ho avuto occasione di crescere; senza la NFL ed i Cowboys non sarei quello che sono”. La lezione più importante che ha imparato: “Se puoi fare qualcosa che ti ispira così tanto, crescerai molto. Non ti preoccupare dell’entusiasmo o delle idee: sono molto più carico oggi di quanto lo fossi allora”. La cosa più bella? L’intera famiglia è coinvolta: nonostante i tanti alti e bassi, le infinite polemiche e tutto il resto, non cambierebbe una virgola. Il futuro? A sentire i Jones, nessun dubbio: “I prossimi 30 anni saranno ancora migliori”.
Una scommessa quasi impossibile
A sentire il report pubblicato recentemente da Forbes, l’impero che Jerry Jones ha costruito in quel di Dallas è il terzo più ricco al mondo, valutato una cifra poco superiore agli 11 miliardi di dollari. Il City Football Group, il più ricco del calcio, vale meno della metà: il fondo RedBird del discusso proprietario del Milan Jerry Cardinale, poco più di 3,5 miliardi di dollari. Per arrivare a vette del genere la strada non è stata affatto semplice, come ha confessato lo stesso patriarca qualche tempo fa al podcast dell’esperto di NFL Adam Schefter. Quando gli ha chiesto di ricordare come fossero le cose quando entrò per la prima volta negli uffici dei Cowboys, Jones ammette che la situazione era quasi disperata. Ci vollero parecchi colpi di fortuna per evitare che la barca affondasse di schianto: nonostante fosse la più popolare d’America, la franchigia del North Texas sembrava condannata. “All’inizio il club stava perdendo soldi. Quando li ho comprati, i Cowboys stavano perdendo più di un milione di dollari ogni singolo mese”.
Aggiustate per l’inflazione, le perdite operative equivalgono a 2,44 milioni al mese ma la situazione, se possibile, era ancora più disperata. Visto che non poteva raccogliere così tanti soldi in contanti, Jones era stato costretto a fare parecchi debiti in un momento decisamente negativo, coi tassi d’interesse alle stelle. Dal punto di vista finanziario, una pessima decisione, che presentava un conto da far rabbrividire. “L’interesse sull’investimento fatto per comprare il club era di altri milioni di dollari al mese, all’11% di interesse netto. Tradotto in termini pratici, qualcosa come 100000 dollari al giorno”. Aggiorniamo anche questa cifra ed in ogni singolo mese dell’anno, la famiglia Jones avrebbe dovuto tirar fuori non si sa bene da dove quasi dieci milioni di dollari. Eppure Jerry aveva ragione: il potenziale finanziario dell’immensa tifoseria dei Cowboys era prezioso. Bastava sapere come trasformarlo in soldi e le cose sarebbero andate sempre meglio. Nonostante all’epoca la cifra pagata avesse fatto impressione (nessuno prima di lui aveva pagato più di 100 milioni per una franchigia), l’investimento ha dato risultati inauditi. Nel 2021 la franchigia ha avuto un fatturato di oltre 1100 milioni e un margine operativo impressionante: oltre 460 milioni dopo aver pagato gli stipendi e le varie spese fisse.
Guadagnare senza vincere? Si può
I risultati, almeno all’inizio, sembrarono dare ragione all’uomo d’affari dell’Arkansas. Finita l’era Landry, si affidò al talento anarchico di Jimmy Johnson, trovando un quarterback memorabile come Troy Aikman e costruendo una squadra quasi imbattibile. Dopo tre Super Bowl in quattro anni, i Cowboys sembravano pronti a dominare il 21° secolo. Dal 1995, invece, solo delusioni per le legioni di tifosi di Dallas. America’s Team è spesso finita fuori dai playoff, senza mai riuscire ad avanzare oltre al secondo turno della post-season. La cosa veramente incredibile è come questo periodo estremamente negativo dal punto di vista sportivo non abbia influenzato negativamente i guadagni. L’unica squadra al mondo valutata oltre gli 8 miliardi di dollari sembra inarrestabile: nonostante la pandemia, negli ultimi tre anni i Cowboys hanno avuto un margine operativo superiore ai 1170 milioni di dollari. La seconda squadra in classifica, i New England Patriots, sono quasi mezzo miliardo indietro, nonostante aver perso Tom Brady e non essersi qualificati alla post-season dall’addio del quarterback più vincente di sempre.
Il resto della classifica di Forbes è davvero intrigante, visto che ci sono squadre come i New York Knicks o gli Houston Texans (404 e 356 milioni di profitto operativo rispettivamente) che hanno vissuto tre stagioni quasi disastrose. A quanto pare, quindi, nonostante gli infortuni a Dak Prescott, l’involuzione di Zeke Elliott, la discutibile gestione di coach McCarthy, Dallas continua a fare soldi come se non ci fosse un domani. I diritti televisivi sono importanti, ma il vero genio della famiglia Jones sta nel marketing e nel trovare modi creativi per usare al meglio lo splendido stadio di proprietà. Più che nella scelta dei tecnici o dei giocatori, Jerry Jones è imbattibile nell’estrarre soldi anche da una roccia. A questo punto si capisce perché il proprietario dei Cowboys abbia più volte detto che rifiuterebbe anche un’offerta da dieci miliardi: “Voglio essere estremamente chiaro, così da non dovermi ripetere ancora. Non lo farò mai, non venderò mai i Cowboys, neanche morto”.
Il vero oro nero? Il football
L’ottantunenne patron dei Cowboys non disdegna certo di apparire davanti alle telecamere. È l’unico proprietario della NFL a concedere regolarmente interviste nel post-partita, tanto che a fare notizia è spesso più lui dello stesso allenatore. La passione per il football è innegabile, come la sua ossessione per il quarto Super Bowl, trionfo che continua a sfuggirgli anno dopo anno, ingaggio milionario dopo ingaggio milionario. La cosa veramente strana ai nostri occhi è come tutta questa passione non solo non gli sia costata un patrimonio ma come l’abbia fatto diventare molto più ricco di una volta. Il parallelo con la famosa battuta di un proprietario di una squadra inglese è stridente: “Vuoi diventare un milionario? Compra una squadra di calcio quando hai almeno un miliardo”. Jerry Jones ha invece vissuto un percorso opposto, usando il football per fare una montagna di soldi. Aveva iniziato come un wildcatter, un imprenditore specializzato nel trivellare pozzi in terreni considerati improduttivi, un’impresa ad altissimo rischio dove fallire è la norma più che l’eccezione. Con il prezzo del petrolio alle stelle visto l’embargo dell’OPEC, l’azzardo pagò, tanto da convincerlo a rimanere nell’industria petrolifera.
La dea bendata gli diede sicuramente una mano: senza le chilometriche file ai distributori probabilmente non avrebbe mai avuto abbastanza successo da convincere i finanziatori a prestargli così tanti soldi per un’operazione tanto rischiosa come l’acquisto dei Cowboys. C’è voluto però del genio per capire che dietro alla facciata scalcinata si nascondeva un affare memorabile. Vista la sua passione per il football, Jerry Jones si rese conto che le franchigie erano gestite malissimo, considerate più come status symbol che come imprese da gestire in maniera professionale. Nel 1989 mettere a rischio i suoi affari nel gas naturale o nel petrolio per comprare una ditta che perdeva milioni di dollari al mese sembrava una pazzia. 34 anni dopo, ha avuto la soddisfazione di ridere in faccia a tutti i suoi critici.
Con l’aiuto dei suoi figli, che lavorano tutti con lui, quella squadra scalcagnata si è trasformata in un vero e proprio impero, studiato con attenzione nei corsi di marketing e gestione aziendale. Nessuno avrebbe mai pensato che la passione per undici uomini che rincorrono un pallone sarebbe stata più preziosa dell’oro nero ma i numeri non mentono. Da quando ha preso il controllo dei Cowboys, la famiglia Jones ha accumulato ricchezze per oltre 8 miliardi di dollari. Riuscire a farlo senza vincere un titolo in quasi trent’anni ha del miracoloso. Possibile che qualcuno alle nostre latitudini riesca a leggere questa storia senza lasciarsi prendere la mano dal solito moralismo peloso, dall’anticapitalismo che ha pervaso ogni ambito della nostra società? Fossi in voi non ci scommetterei un solo centesimo ma la speranza è l’ultima a morire.
Una cosa è certa: molti dei potenti del calcio nostrano farebbero bene a studiare la vicenda di Jerry Jones con molta attenzione. Gli investitori americani che fanno la fila per comprare le squadre della nostra Serie A sperano di ripetere la sua impresa, magari in piccolo. Per loro fare profitto non è un peccato: è l’unica ragione per giocare. Piaccia o non piaccia, anche nello sport vince chi mette da parte più soldi.
Se poi arrivano i titoli, meglio, ma non è l’obiettivo principale. I benpensanti ed i nostalgici scuotano pure la testa ma la strada verso il futuro l’ha indicata nel 1989 quel simpatico pirata dell’Arkansas. Ignorate le sue lezioni a vostro rischio e pericolo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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