Nell'ultimo mese ha passato tutto il tempo a disposizione a scorrere le formazioni. Impara i nomi a memoria. Li ripete mantricamente anche la notte, prima di prendere sonno. Certo, se ti hanno sbattuto in galera su quell'indesiderabile atollo che è Robben Island, non è che ci sia molto da fare per rimpinzare di contenuto le tue giornate. Ma Nelson Mandela sa che questa cosa qui gli tornerà assai utile. Debitamento edotto, si reca dal capo della prigione nell'ora d'aria e rompe il ghiaccio. "Hey boss, ma hai visto che meta, quello?". Il maggiore Van Sittert, di solito impassibile, ma enorme appassionato, protende il capo. "Ti indendi di rugby, Nelson?".
No, Mandela non ne sapeva un bel niente. Ma gli serviva troppo un fornellino da cucina, per foderare di cibi dignitosi la sua permanenza in quella gabbia fetida. E l'unico modo che aveva per indurre il disgelo con chi comandava era buttarla sullo sport, e sulla palla ovale segnatamente, per tentare di stabilire una connessione. Per indovinare un pertugio d'umanità. Missione compiuta: semaforo verde per il fornellino. Ma quando uscirà, Nelson si porterà dietro molto più di qualche piatto decente condito da un'amicizia bizzarra con il suo carceriere. Adesso sa praticamente tutto del rugby.
Il che gli torna particolarmente utile nel 1995, quando - ad appena un anno dalla sua elezione - il Sudafrica si appresta ad ospitare la Coppa del mondo del nobile sport. Illudersi che fili tutto liscio è però un esercizio alquanto vaporoso. Il Paese è appena riemerso dalla piaga purulenta dell'apartheid e macera ancora potente, in sottofondo, un sentimento di divisione autentica tra bianchi e neri.
Una questione che si riflette anche nello sport: la nazionale di rugby è quasi totalmente composta da bianchi. Tutt'altro che un particolare irrilevante, visto che la stragrande maggioranza della popolazione - i neri sono l'80% - ha sempre tifato contro un gruppo che non li rappresenta e che, in passato, è stato apertamente sostenuto da razzisti.
Incollare questi cocci, anche se ti chiami Mandela, pare improponibile. Eppure Nelson raccoglie quella poltiglia livorosa, la rimodella, la compatta. Una storia magistralmente testimoniata dal film del 2009 Invictus, con Morgan Freeman nei panni del presidente. Dopo due mesi dalla sua elezione, è il giugno 1994, Nelson incontra il capitano della nazionale, François Pienaar. E gli fa capire nitidamente che quel mondiale deve servire per trasmettere un messaggio unificante. Quello sembra soppesare con sorpresa ogni sillaba, poi riporta tutto al gruppo, composto da venticinque bianchi e un nero.
La mossa successiva è fare imparare a tutti, a memoria, il Nkosi Sikelele, l’inno nazionale della popolazione nera in lingua Xhosa. Poi Mandela raggruppa tutti quanti e li porta a fare una gitarella contemplativa a Robben Island, il posto dove lui stesso è stato rinchiuso. Quindi, a ridosso della competizione, piomba nel ritiro del Sudafrica per pronunciare un discorso che dissipa ogni dubbio residuo sulla sua volontà: "Avete l'opportunità di fare una grande cosa per il Sudafrica, di unire la gente. Ricordatevi che tutti, bianchi e neri, siamo con voi".
Il resto lo sanno tutti. Quella squadra, sospinta da una folla finalmente cementata, oltrepassa con disinvoltura il girone ed ogni tappa successiva, sconfiggendo in finale la formidabile Nuova Zelanda. Il Paese si aggrappa ad ogni partita tifando all'unisono. Le distanze si accorciano. Le voragini si riempiono.
Quando Mandela scende in campo a Johannesburg, indossando la maglia della nazionale e un cappellino, la folla lo acclama: "Nelson, Nelson, Nelson!".
Consegnando la coppa a Pienaar, lo ringrazia per quello che sono riusciti a fare, ma il capitano lo abbraccia: "No presidente, grazie a lei per quello che è riuscito a fare per questo paese". Ritratto di un successo che travalica lo sport, ma che senza lo sport non sarebbe mai arrivato.
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