Sentendo le ultime da Zuccotti Park, gli italiani commenteranno con il solito: «americanate». E avranno ragione. Sono americanate. Da noi la manifestazione degli indignati si sa com’è finita: caos, fiamme, la capitale paralizzata. Da loro, a Wall Street, la manifestazione è diventata subito un marchio: «Occupy Wall Street», Occupiamo Wall Street, è come Woodstock per la musica, come il campus di Berkeley negli anni Sessanta da cui partì la rivolta studentesca in tutto il mondo e anche una cultura. L’America produce le sue rivolte e le trasforma in produzione industriale, letteraria, commerciale e intellettuale allo stesso tempo. E infatti, ecco che a Zuccotti Park la protesta diventa un brand, un marchio di fabbrica e poi un affare che presto sarà quotato in borsa, proprio lì, a Wall Street, mentre fiorisce il marchandise di borse comuni, borsone a tracolla stile Hollywood, borse da palestra, calze scarpe adesivi e ciabatte infradito, tutta roba marchiata con l’acronimo «Ows», Occupiamo Wall Street. Negli Usa tutti conoscono il nome dei coniugi di origine italiana Maresca: Robert e Diane, un ex sindacalista e una psicoterapista che si sono precipitati a brevettare come loro il marchio «Occupiamo Wall Street», richiesta ancora inevasa e controversa perché sullo stesso marchio si sono gettati a capofitto quelli della serie televisiva «True Life» di Mtv che ne stanno facendo un reality show, come l’editore di sinistra «OR Books» che con un gruppo di scrittori noti come «writers for the 99%» sta cercando di fare il colpaccio della perfetta strenna natalizia per arrabbiati e indignati, benché la casa editrice assicuri che il ricavato andrà al movimento stesso. Il movimento «Ows» diventa così un recettore di fondi - sono piovuti 300mila dollari e non si sa ancora come amministrarli - in un Paese in cui il «fund rising», la colletta a favore di un candidato o di un partito, è la spina dorsale della democrazia. Tu vuoi entrare in politica? Beh, non devi far altro che salire su un panchetto, o su un tavolo, e dire quel che hai da dire. Se la gente ti ascolta, fai una cena: a chi viene, chiedi di pagare un biglietto per sostenerti. E se la gente sarà pronta a pagare cento, duecento, mille dollari per sostenerti, vuol dire che sei pronto per correre alle primarie.
Lo stesso accade per un movimento che è stato premiato dalla pubblica opinione, qualcosa che ha fatto centro - bingo - nel cuore della gente e che diventa vissuto, cantato, condiviso - shared - ricordato con memoria collettiva e sentimentale. È un’americanata, sì, ma un’americanata che si chiama democrazia e che nasce e si sviluppa da sola: gli americani, compresi i giovani arrabbiati, gli indignati, coloro che pensano di dover e voler cambiare il sistema, vogliono riconoscersi in simboli nati da qualcosa di vivo, creato dalla gente e riconosciuto come appartenente allo spirito del tempo, come lo Zeitgeist percepito per la prima volta nella Germania illuminista: «Was ihr den Geist der Zeiten Heisst», «è stato lo spirito dei tempi», dice Mefistofele nel «Faust» di Wolfgang Goethe, lo stesso Faust ricondotto allo spirito del nostro tempo dal capolavoro di Alexander Sokurov, vincitore della Mostra del Cinema di Venezia. E questa ci sembra l’americanata intesa come approccio alla vitalità dello spirito del tempo: la capacità di far vivere i simboli e tradurli in oggetti, portare gli oggetti alla vendita sia sulle bancarelle di strada che on line, nei veri negozi e nell’ipermondo virtuale, ovunque un sentimento diventi visibile e dunque con un valore che sia anche il valore di un dollaro, one damned buck, un solo dannato dollaro che come gli organismi unicellulari si suddivide e moltiplica tanto quanto si moltiplicano e si condividono le idee. E allora to make a quick buck off of it, tirar fuori un dollaro alla svelta dall’occasione che si presenta come evento condiviso, non è affatto un bieco sfruttamento commerciale, un deplorevole episodio di consumismo, ma la traduzione delle idee forti in azioni forti e la loro certificazione fisica nel mondo delle idee come nel mondo degli oggetti, ciò che può essere tramandato e trasmesso, venduto e comprato sul trade, il mercato dello scambio e dunque un traded brand, un marchio di fabbrica di oggetti e idee. Ancora oggi nelle campagne del Sud, dove vivono ancora cacciatori e indiani, trappers e giganteschi pellirossa impassibili e impermeabili al mondo moderno, il trade, lo scambio, del blanket per un cavallo come di un’idea, di un link per il computer come di un’esca per il salmone.
E il punto infatti ci sembra proprio questo: il rapporto biunivoco, cioè diretto e irreversibile, fra consenso democratico e traduzione del consenso in valore sia ideologico che commerciale: One buck, one idea, un dollaro e un’idea, una colletta e una rappresentanza, un libro e un sostegno a una causa, una causa e un marchio, un marchio e una maglietta, una borsa e una conquista sociale, una lotta, una battaglia, una musica, un film e una raccolta di fondi, un senatore, un congressman, un blog e una contestazione, una battaglia contro le tasse e una contro i monopoli, un paio di ciabatte di plastica e un paio di idee forti e vincenti: questa ci sembra l’anima leggera e allo stesso tempo profonda degli States, così lontana, così straniera rispetto alle nostre idee pesanti e arcigne, alle nostre marce grevi, agli insulti e al vecchio modo del vecchio mondo, di cui quello italiano appare spesso uno dei più decrepiti.
Ed è questa profonda leggerezza del sistema a guidare in America una democrazia che sorprende se stessa: come altro si potrebbe spiegare l’ascesa inaspettata e incontrollata dai poteri cosiddetti forti, di un outsider come il repubblicano nero Herman Cain, questa montagna di carne cervello e voce, che sta sbaragliando tutti i favoriti a cominciare dal coccolato (dai media) Mitt Romney e dal suo ipotizzato rivale Rick Perry. Cain viene fuori direttamente dall’anima non soltanto nera del Gop, il Grand old party che è anche un collettore di modi di sentire e che non ha nulla a che fare con quello che a noi potrebbe sembrare un partito banalmente conservatore. C’è una relazione fra l’esplosione del marchio Occupy Wall Street e l’ascesa impetuosa del nero che potrebbe diventare fra un anno il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America? Secondo noi sì: è proprio la scansione della libertà di strada e di pensiero popolare a determinare questi fenomeni da noi sconosciuti e che suonano bizzarri, a loro modo tutte «americanate».
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