Ana María Matute, la solitudine della libertà

Ecco il secondo "atto" della trilogia sulla guerra civile spagnola

Ana María Matute, la solitudine della libertà
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Titolo tratto da un lirica di Quasimodo, I soldati piangono di notte (Fazi , pagg. 212, euro 18,50; traduzione di Gina Maneri) è il secondo libro della trilogia narrativa della scrittrice catalana Ana María Matute (Barcellona, 1925-2014), ambientata durante la guerra civile spagnola, in cui il giovane Manuel figlio adottivo di José Taronjí, l'abile marinaio poi trucidato dai franchisti, e del padre naturale, José di Son Major che lo riconosce solo in punto di morte esce dal carcere e torna alla vita dell'isola in una Spagna diversa dominata dalla vendetta dei vincitori. Manuel, oppresso da tanti ricordi, ha ora una missione da compiere: trovare Marta, la moglie di Jeza, il responsabile del bando repubblicano, giustiziato in carcere, di cui Marta, fuggita nell'entroterra, è ancora all'oscuro. Difficile non cogliere nel loro incontro, nella comune tragedia vissuta, il segno di una solitudine che continua a legarli e a separarli dal mondo esterno.

Tutto è cambiato e i terribili ricordi della guerra continuano a turbare la mente di Manuel che ora, tornato nei luoghi familiari, rivede nel ricordo sua madre assalita dalla furia delle donne che le tagliano le bellissime trecce rosse, la colpiscono con calci e pugni per poi abbandonarla, tumefatta e sanguinante, mentre esse, moderne Erinni, si allontanano cantando inni di vittoria. Difficile per Manuel dimenticare l'immagine di questo torbido e violento passato.

Nell'isola Manuel ritrova, attraccata nel porto, l'Antínia, la vecchia barca di suo padre naturale: nel rivederla tornano i ricordi di quando era bambino e giocava con i compagni alla guerra: ora però tutto si confonde e sovrappone con la realtà del presente. L'isola, nel romanzo, con il suo mondo naturale d'acqua e spazio infinito, funziona come accade in tutta la trilogia di Ana Matute quale metafora di uno spazio ideale dove rifugiarsi e nascondersi. Immagine che indica al contempo vicinanza e lontananza: nel primo caso è figura familiare che protegge e conforta, mentre nel secondo indica lo spazio infinito che ci separa dal mondo.

Nel romanzo non leggiamo molte pagine che parlano dell'isola, ma sappiamo che il mare è lì come un mondo che uno porta con sé. Ogni volta che la scrittrice lo fa, si ha l'impressione che accada o stia per accadere qualcosa, non all'esterno ma dentro i personaggi. Come in quest'avvio della barca nell'acqua, dove leggiamo: «L'Antínea prese il mare, e pareva che non si muovesse, su una rotta che svaniva appena iniziata (come l'orma di qualcuno che ormai non è più, che forse non esiste più)».

In genere la natura e il suo paesaggio, e tutto ciò che è semplice e genuino, portano i segni dei sentimenti dell'uomo, raccontano il suo dolore e l'ingiustizia subita. «Un rancore passivo e privo di rabbia, non scevro d'amore scrive Matute lo trasformava. Aveva visto gli alberi perdere le foglie e liberarsi della corteccia: anche lui si stava lentamente, inesorabilmente spogliando della sua infanzia ingenua, dell'ultimo sopore del sonno».

Un libro di confessione, dove il protagonista Manuel racconta con dovizia di particolari la sua difficile vita e lo fa davanti a Marta che a sua volta evoca l'infanzia, l'adolescenza e lo scontro avuto con sua madre.

Un lungo, lacerante monologo durato tre lunghe tormentate notti. Dunque, un racconto del passato: un passato di violenza che giunge a lambire il presente. Il romanzo si chiude con un'immagine di morte, sospesa nel tempo e immersa nella bellezza imperturbabile del mare e dell'isola.

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