Armi all’avanguardia, spirito di corpo e una rigida gerarchia dei ruoli Furono le legioni dei «figli di Marte» a fare dell’Urbe la «caput mundi»

Lo scrittore che vuole farci rivivere una battaglia, ci catapulta sulla linea del fuoco. È il metodo di Tolstoj. In Guerra e pace, ci esplode intorno il più sanguinoso scontro delle campagne napoleoniche. A Borodino, 250mila tra francesi e russi si affrontano nella mattanza che segna un punto tattico a favore di Napoleone, 80mila vittime sul terreno, la cadenza di 3 morti al secondo. Sperimentiamo la carneficina con gli occhi di Pierre Bezuchov. L’uomo si sistema dietro una postazione di artiglieria e diventa, per noi, la macchina da presa di una cronaca rovente, impastata di paura, di adrenalina, di istinti primordiali.
Gastone Breccia, accademico di storia militare, usa lo stesso stile in I figli di Marte (Mondadori, pagg. 425, euro 22), il lungo e dettagliato racconto dell’arte della guerra nell’antica Roma. Mentre leggiamo il capitolo sulla battaglia, il tempo si annulla. Una regia simile a quella di Ridley Scott (le scene iniziali del colossal Il Gladiatore, per intenderci, con l’armata dell’imperatore Marco Aurelio impegnata contro i Marcomanni germanici, 180 d.C.) ci trasforma in soldati di Roma. Eccoci nella conferta legio, il classico reparto serrato con rigore geometrico, forte di 6000 militi. Siamo dentro la centuria, in ordine di combattimento, una fronte doppia di 20 uomini sulla profondità di 4. Abbiamo appena lasciato lo spazio rassicurante dei castra, gli accampamenti fortificati e da laggiù, ai margini del bosco, oltre il declivio erboso, ci investe l’urlio disordinato del nemico barbarico che sta per fiondarsi sulla nostra schiera. Sentiamo ristagnare nell’aria il fetore della paura: è umano. Ma la nostra linea è unita.
Per centinaia di anni, Roma ha oliato gli ingranaggi della sua strategia di guerra. Il nostro equipaggiamento è un equilibrio efficiente di riparo e di offesa. Il braccio sinistro regge lo scudo rettangolare concavo, due tavole chiodate di legno massiccio, con il bordo di ferro, che fa del singolo una piccola torre mobile d’assalto, rinforzata al centro da una piastra metallica, l’umbone. Lo scutum è anche un arsenale portatile. All’interno sono appesi i due pilum, giavellotti pesanti d’ordinanza, oltre ad altri proiettili da getto. Ad ogni passo di marcia, sentiamo sulla coscia lo schiaffo del gladium, corta e micidiale spada da punta e da taglio. È la daga leggendaria su cui Roma ha costruito tutte le sue glorie. Nelle orecchie ci echeggiano ancora le parole del generale, un breve, scandito discorso di sprone, l’hortatio, ripetuto ogni 500 passi della colonna in movimento, perché ciascuno oda e comprenda.
L’attimo cruciale scatta quando il centurione, da sotto il suo elmo crestato, spalle ostentatamente al nemico per infondere sicurezza e sprezzo, gracchia l’ordine di stop, le armi al piede, il peso del nostro corpo che si sposta da una gamba all’altra, creando lo strano effetto di un pendolo continuo, un refolo di vento che fa ondeggiare la legione. I nostri occhi s’inchiodano al signum, lo stendardo che indica la direzione d’attacco. Non vediamo il campo: solo la calotta di cuoio che protegge la nuca di chi è in posizione davanti a noi. Quando squilla il comando di estrarre il gladio, il fruscio di migliaia di lame dai foderi è come un sospiro di metallo. A questo punto, la battaglia è già vinta. Ciò che sta per succedere è scritto da secoli. L’incipit del copione è stato scritto da Marte, dio della guerra, e costantemente aggiornato. Stando ai miti, i Romani sono la sua prole. Da Marte nasce il capostipite, Romolo, il primo comandante, fondatore della perizia bellica.
Agli albori, la guerra romana è per bande: pastori e cacciatori che si battono per istinto, nei raid per la preda. Mordi e fuggi. Ma Roma ha un talento innato: assimila culture e tecniche dei popoli che soggioga. Dagli Etruschi apprende il maneggio di scudo, asta e spada. Dai Greci, la tattica della falange con le armi pesanti, articolata in legioni e manipoli, manovrate dai generali come pezzi sulla scacchiera. L’armata è una città solidale in marcia inarrestabile. I genieri gettano strade e ponti, perforano montagne, fanno sorgere dal nulla in poche ore una potente base militare.
La legione vince, perché il capo scatena lo scontro solo quando tutti i coefficienti sono dalla sua parte. Roma è grande nella vittoria. Ma grandissima nella sconfitta, perché mette a frutto l’errore, registra i piani, cementa le file con la virtus, un concentrato di mestiere, di attaccamento patrio, di fiducia personale nel condottiero. Abolisce il panico, tallone d’Achille di ogni esercito. Orazio Còclite, il combattente che da solo blocca un’orda nemica sul ponte Sublicio permettendo ai suoi di riorganizzare la difesa, è lo stampo del soldato-cittadino, l’arma regina di Roma.


Dal legionario al cavaliere catafratto dell’ultimo impero, statua cesellata nel ferro che prelude al medioevo, le pagine di Breccia narrano l’epica evolutiva della caput mundi guerriera, con l’informazione del manuale storico e il respiro del colossal.

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