Nell'arte non c'è fascismo (e viceversa)

Il saggio di Vittorio Sgarbi recupera dall’oblio la creatività dimenticata del Ventennio Gli artisti di avanguardia non si interessavano del versante più politico Quando il futurismo fu messo in mostra ad Amburgo e poi a Berlino e Vienna il clima culturale era ostile: la mostra scatenò le polemiche nella Germania hitleriana e passatista

Adolfo Wildt - Dux
Adolfo Wildt - Dux

Paradigma di questo rapporto tra arte e potere è l’esperienza di Fortunato Depero, fascista così convinto da immaginare una «Officina d’arte fascista Depero», di cui resta una notevole corrispondenza indirizzata tra l’altro al ministero per la stampa e la propaganda. Al Mart si conserva la sua Relazione dei miei rapporti artistici con il Fascismo, presentata come rapporto alle autorità antifasciste di Trento nel 1945: motivando e difendendo i progetti realizzati per il regime, si dichiarava estraneo al Fascismo e ricordava le sue collaborazioni con il regime, compiute «perché ordinatomi, perché anch’io dovevo pur guadagnarmi il pane». Nella bilancia del dare e dell’avere, poneva «su di un piatto tutto quello che può apparire a mio svantaggio – tutti quelli errori umani e giustificati commessi in buona fede e se si vuol credere per errato entusiasmo o leggerezza d’animo o per incompetenza politica o per perdonabile generosità d’artista», mentre, sull’altro piatto della bilancia, tutto «il cumulo documentato e riconosciuto di quel patrimonio attivistico-artistico ed artigianesco che ho largamente seminato, offerto ed affermato per 30 anni con quotidiane fatiche, con ininterrotte lotte sostenute dalla mia fede artistica che tutt’ora mi anima, a tutto onore ed amore per il mio Paese per una nuova estetica e una nuova arte».

Maurizio Scudiero ha ben evidenziato la distanza tra valori estetici e militanza politica. La premessa è di Mino Somenzi, sull’organo ufficiale del movimento (Futurismo, n. 27, 12 marzo 1933): il «Futurismo è una forma d’arte e vita; il Fascismo una forma politica e sociale: cose diametralmente opposte». Paolo Buzzi potenzierà: Estrema sinistra! C’è un solo Futurismo: quello di estrema sinistra» (Futurismo, n. 29, 29 marzo 1933). L’anno seguente, il futurismo, con testimonianze di aeropittura, è in mostra ad Amburgo e poi a Berlino e Vienna. Il clima culturale è ostile: la mostra scatena polemiche. Hitler perseguita la entartete Kunst (“arte degenerata”). Replica dall’Italia il futurista Prampolini: «Ora che i grandi maestri dell’espressionismo tedesco hanno emigrato altrove e che questa corrente è stata messa al bando, su cosa spera di fondare il nazismo le sue nuove basi estetiche ed artistiche?».

Una posizione che «riflette il tremendo equivoco in cui viene a trovarsi l’avanguardia futurista messa alle strette da una dittatura che mostra il suo vero volto» (Claudia Salaris). Marinetti cerca una mediazione che impedisca analoghe epurazioni anche in Italia. Nel 1937, infatti, la mostra sull’arte degenerata di Monaco di Baviera ha una cassa di risonanza su Il Perseo, che attacca Marinetti quando parla al Teatro Argentina di Picasso e dell’arte astratta. E agli astrattisti italiani Marinetti offre alle mostre ufficiali lo spazio nelle sale con i futuristi. Osserva Scudiero: «Ed è perciò proprio attorno a Marinetti che si cementa la difesa del Moderno, specie quando, nel 1938, anche in Italia sono emanate le leggi razziali. La rivista ufficiale del movimento, Artecrazia, diretta da Mino Somenzi, ebreo e intellettuale d’avanguardia, diviene l’ultimo baluardo della difesa dell’arte moderna in Italia. Su quello che sarà poi l’ultimo numero, il 118 del gennaio 1939, si pubblicano le adesioni in favore dell’arte moderna che vedono schierati fianco a fianco astrattisti, futuristi, razionalisti, novecentisti».

Di «avanguardia di Stato» parla, utilmente, Maria Elena Versari, con riflessioni necessarie in tempi di equivoci: «La critica da anni discute le ragioni di questa sfortuna ufficiale di un’arte che si vuole “arte di Stato”, individuando in primis la mancanza di un linguaggio popolare, adatto all’idea che della propaganda ha il sistema burocratico dello Stato stesso. La questione è interessante perché rispecchia il problema di fondo dell’avanguardia, la sua capacità non tanto di rappresentare, ma di cambiare la mente del pubblico, di ottenere un risultato, di influire. Rispetto ad altri gruppi che facevano della uniformità stilistica una garanzia della loro identità avanguardista (e spesso della loro fede politica – pensiamo ai costruttivisti), i futuristi hanno sempre portato avanti un’attitudine di insofferenza verso l’idea che stia all’arte di tradurre fedelmente una ideologia politica. Semmai è il contrario. È la politica che deve essere giudicata sulla base del suo essere innovatrice e d’avanguardia».

Il rovescio sarà tentato dal premio Cremona, restituito al suo rilievo da Rodolfo Bona, nel riconoscimento, infine, del prevalere dei valori estetici sulla propaganda politica, nonostante il giudizio supponente e liquidatorio di Giulio Carlo Argan: «A Bergamo pittura buona, a Cremona solo immondizia». Per smentirlo, nella sua autenticità popolare e nella forza di restituzione della tradizione, è sufficiente il trittico Il grano di Pietro Gaudenzi, capolavoro dimenticato. Lo scontro fu più politico che artistico, come precisa Giordano Bruno Guerri nel suo utile ed encomiastico saggio su Bottai: «Da anni Cremona Nuova, quotidiano di Farinacci, inveiva contro chiunque non seguisse quei canoni: “Lasciamoli alla contemplazione delle bottiglie e dei pesci morti, lasciamoli nel loro mondo fatto di alberelli stremenziti e di donne sfatte”».

Invece Bottai, che da dieci anni attaccava il pompierismo dell’“arte fascista”, reagì appunto con il premio Bergamo, di indirizzo tecnico-stilistico e culturale diametralmente opposto. La contrapposizione estetica e intellettuale dei due concorsi contribuì non poco a smorzare l’offensiva farinacciana. E oggi c’è scarso ricordo dei pittori del premio Cremona, mentre a Bergamo furono premiati fra gli altri, in pochi anni, de Pisis, Mafai, Guttuso. Dal premio Bergamo inoltre nacque il movimento della rivista Corrente, che raccolse un gruppo di artisti, poeti, letterati, critici, registi, fra cui Bruno Cassinari, Luigi Rognoni, Oreste Macrì, Carlo Del Bo, Renato Guttuso, Vittorio Sereni, Aligi Sassu, Ernesto Treccani.

Corrente fu soppressa dal regime all’entrata in guerra e in seguito è stato molto enfatizzato il suo antifascismo, che era soprattutto artistico: antistoricista e aperto alla moderna cultura europea.

Se l’errore di Hitler e di Goebbels fu di avere considerato “degenerati” i principali movimenti di avanguardia del Novecento, come il cubismo, l’espressionismo, il dadaismo, il surrealismo, la Nuova oggettività, l’errore altrettanto grave della critica italiana è simmetrico: nel culto delle avanguardie, ritenere le opere concepite durante il regime, in particolare proprio quelle del premio Cremona, impresentabili, reazionarie, indegne di un’attenzione critica. Nessuna attenzione e considerazione per gli artisti la cui creatività era assertivamente subordinata all’ideologia fascista e il cui ipotetico valore sarebbe stato travolto dalla caduta del Fascismo.

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