Nella morte di Gianni Vattimo, teorico del pensiero debole, c’è qualcosa di simbolico. Con il filosofo, tramontano il Sessantotto e i suoi lunghi strascichi, il relativismo assoluto e il postmoderno effimero. Era inevitabile. Cosa poteva rispondere il pensiero debole alla guerra in Ucraina, nel cuore dell’Europa? Cosa poteva rispondere a una immigrazione di massa dall’Africa al nostro continente, vecchio e stanco? La guerra richiede di schierarsi, affermando le ragioni di una parte o dell’altra. L’Italia si è schierata, dichiarando la sua appartenenza al “mondo occidentale”, qualunque cosa significhi ancora questa espressione. Anche l’immigrazione di massa richiede un pensiero forte sulla propria identità, a meno che non si ritenga che la specificità dell’Europa sia... non averne una. L’accoglienza è difficile, forse impossibile, se non abbiamo idea di quali siano i nostri valori fondamentali e irrinunciabili. Chiediamo ai nuovi arrivati di integrarsi: ma integrarsi a cosa? È indispensabile avere una risposta. Insomma, il pensiero debole, forse, è muto davanti alle sfide del contemporaneo.
Ci vuole un pensiero forte, che non significa prevaricatore o autoritario. Significa conoscere se stessi, la propria vocazione storica, il nostro ruolo nel mondo. Ognuno di questi temi può essere oggetto di discussione, come tutto, naturalmente. A patto di non arrivare alla dissoluzione di principi che dovrebbero essere condivisi da ogni parte in causa, tipo la centralità dell’individuo o la separazione dei poteri. Indubbiamente, Vattimo ci lascia una lezione.
Ad esempio, la tolleranza, nonostante il Vattimo personaggio pubblico non sia stato capace di praticarla. È importante anche il richiamo alla carità.
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