Pablo Montero, uno che se ne intende di squadre rognose, è autore di una definizione molto efficace sul conto del Paraguay, ancorché cruda. «Fate attenzione perché è una squadra de mierda» ha raccontato con enfasi incrociando i cronisti italiani in Sudafrica. E questa volta non c’entra affatto la rivalità tra lui che è uruguagio e i rivali di stasera degli azzurri. La definizione sembra fatta apposta per orientare meglio la parabola dell’attenzione. Pablo Montero, vecchio sceriffo della Juventus dei tempi d’oro, è un conoscitore raffinato del calcio sudamericano. Attualmente draga quel mercato per proporre ai tanti amici conservati nel calcio continentale calciatori sfuggiti all’attenzione dei più. «È proprio una bella rogna questo Paraguay, perché si attaccano alle caviglie e non le mollano mai» la seconda descrizione che rende omaggio alle caratteristiche essenziali della nazionale «albiorroja», biancorossi la traduzione elementare.
Montero è un antico allievo di Marcello Lippi: scontato che gliene abbia confidato non solo le virtù ma anche qualche difetto che pure Cesarone Maldini, ct nel mondiale targato 2002 di Giappone e Corea s’incarica di segnalare («i terzini non sono un granché»). A leggere il ruolino di marcia del Paraguay non c’è da stare molto allegri, questa sera a Città del Capo. Intanto per la sequenza con cui questa nazionale ha centrato, puntualmente, la qualificazione alla fase finale degli ultimi quattro mondiali. Questa volta poi la sua qualificazione, seconda dietro il Brasile, è stata impreziosita da un paio di successi domestici, ad Asuncion («ci sono sempre 70mila per ciascuna partita della nazionale» la nostalgia di Cesarone Maldini) contro Argentina e Brasile che non sono certo gli ultimi della fila. «È il miglior Paraguay della storia» la definizione impegnativa proveniente da critici e addetti ai lavori. Meglio non fidarsi, allora, e dar retta a Montero.
Gerardo Martino, il ct detto tata, nonno, argentino di passaporto e di estrazione calcistica, è una garanzia ulteriore. Non si è mai segnalato in incursioni verbali ma ha seguito una traiettoria meno impegnativa: blandire i rivali solleticando l’orgoglio nazionale che è una delle risorse dichiarate del gruppo. «Non siamo più i perdenti di sempre» la frase con cui ha accreditato le chances della sua nazionale e ha cominciato a scaldare i cuori della gente con qualche grido di guerra.
Roque Santa Cruz, un tempo centravanti del Bayern Monaco, adesso croce e delizia di Roberto Mancini al Manchester City, ha incarnato perfettamente il sentimento popolare firmando un pronostico utilizzato come doping per il proprio ritiro «Vinciamo noi, 1 a 0 o 2 a 0» il suo vaticinio arricchito anche dal risultato ma poi alleggerito da una sorta di avviso per i naviganti.
«L’importante è avere pazienza» che tiene conto perciò di alcune caratteristiche degli azzurri. Ha un ginocchio instabile Santa Cruz ed è forse questo l’interrogativo relativo al Paraguay che deve puntare le sue chances migliori su Barras, 19 gol nella Bundesliga con la maglia del Borussia di Dortmund. «Il segreto della nostra qualificazione è il lavoro silenzioso e responsabile dei giocatori e di tutto lo staff» la convinzione di Martino detto tata, epurato dell’aspetto più significativo, l’entusiasmo procurato dal pubblico di Asuncion.
I precedenti sono appena due. Uno, il primo, si perde nella notte dei tempi e risale infatti al 1950 (2 a 0 per gli azzurri) e il secondo datato 1998, a Parma con il 3 a 1 rifilato sulla schiena dei sudamericani dall’Italia di Cesarone Maldini. Due successi su due.
Forse è il caso di toccar ferro, dopo le esperienze non proprio esaltanti contro Messico (prima sconfitta dopo dieci risultati utili consecutivi) a Bruxelles e di rileggersi la definizione di Pablo Montero, senza ricorrere alle informazioni ricevute da Barreto, esponente dell’Atalanta, proveniente perciò dal nostro campionato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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