E sono già quattordici anni che piangiamo la morte di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra, scomparsa la sera del 26 novembre 2010 e ritrovata morta il 26 febbraio 2011, sul corpo alcune coltellate e segni di assideramento del corpo in un campo a Chignolo d’Isola, a pochi chilometri dalla palestra dove era stata vista l’ultima volta, a 700 metri da casa sua. Alle 18.47 il suo telefonino si era agganciato a una cella per poi scomparire.
Un omicidio che ha spaccato in due l’opinione pubblica, come tanti altri casi di cronaca, ha scatenato segugi e commentatori e ha acceso la mente di scrittori e sceneggiatori anche per come è nato il verdetto che ha condannato all’ergastolo il muratore di Mapello Massimo Bossetti, incastrato da una prova scientifica come il Dna che pure alcuni considerano un po’ troppo claudicante. Lo pensa Giovanni Terzi, scrittore, giornalista e conduttore radiotelevisivo, che dopo aver collaborato alla serie tv Netflix "Yara" uscita quest’estate (non senza cascami polemici sui giornali e nelle aule giudiziarie) ha pubblicato l’ennesimo appello di Bossetti nel suo libro scritto per Piemme "L’ultimo sguardo di Yara", in libreria da oggi.
La prima pista del marocchino Mohamed Fikri, che lavorava in un cantiere edile e che sarà fermato su una nave diretta a Tangeri, si è spenta in poche settimane e non senza polemiche. Una figuraccia che ha reso necessaria un’indagine monstre. Così è stato.
Come sappiamo, per comparare i campioni di Dna maschile ritrovati il 15 giugno 2011 sui leggins e sugli slip della ragazza, considerati la prova chiave dal processo e dalle indagini condotte dalla Procura di Bergamo, sono stati «catturati» migliaia di campioni genetici. Uno venne estratto da una marca da bollo sulla vecchia patente di Giuseppe Guerinoni, di Gorno, che secondo i pm avrebbe avuto un figlio illegittimo. Nasce il famoso Ignoto 1, il 16 giugno 2014 quell’Ignoto 1 ha un nome e un’identità che coincide con il Dna trovato sul corpo di Yara. La madre, Ester Arzuffi, aveva avuto una relazione con Guerinoni da cui era nato Bossetti. E proprio quelle provette che lo dimostravano e che sembravano essere andate distrutte resuscitarono nel novembre 2019 quando al settimanale «Oggi» uno dei consulenti della Procura bergamasca disse che i campioni genetici c’erano ancora ed erano conservati al San Raffaele di Milano. In realtà c’erano solo alcune porzioni «già esaurite» per i periti intorno alla traccia 31 G20, che diede la compatibilità più schiacciante con Bossetti. Tanto che l’istanza con cui si chiedeva di poter analizzare i reperti dell’indagine venne respinta perché giudicata «inammissibile» dalla Cassazione.
È stata recentemente archiviata l’indagine nei confronti del pm titolare dell’inchiesta Letizia Ruggeri, chiesta da Bossetti con l’ok della Corte di Cassazione alla competenza dei colleghi dell’ufficio veneto. Le accuse di frode processuale e depistaggio erano anche a carico del presidente della prima sezione penale del tribunale di Bergamo Giovanni Petillo, che da presidente della Corte d’Assise di Bergamo respinse come inammissibili le richieste della difesa di esaminare i reperti, e per Laura Epis, funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato. «Spostare quelle 54 provette di Dna dal frigorifero del San Raffaele all’ufficio Corpo dei reati del Tribunale di Bergamo dopo l’ergastolo definitivo non è né illegittimo né anomalo o deviante tale da far dedurre che fosse stato mosso da finalità diverse e illecite», scrive Alberto Scaramuzza, gip di Venezia, distretto competente su Bergamo.
Vive ancora la speranza di una richiesta di revisione, come insistono a dire i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che hanno fatto opposizione all’archiviazione per frode processuale e depistaggio, secondo cui questo verdetto «non fa venir meno il fatto storico» della destinazione dei reperti a un luogo non refrigerato tale da alterarli e renderli inutilizzabili per nuove analisi, dal momento che l’archiviazione («non è un doloso intendimento ma la considerazione da parte del pm della loro irrilevanza», scrive il gip) conferma quanto accaduto, sebbene il verdetto di Venezia tenda anche a chiarire come «le eventuali nuove analisi sul Dna mitocondriale non avrebbero comunque potuto mettere in discussione l’individuazione certa del Bossetti avvenuta sulla base del Dna nucleare», e quindi, come dire, che lo rifacciamo a fare il processo?
Per la criminologa Roberta Bruzzone, che con Laura Marinaro ha scritto il libro «Yara, Autopsia di un’indagine» (Mursia editore) «Massimo Bossetti ha ucciso Yara quella maledetta notte del 26 novembre 2010 e ha firmato quel viaggio nell’orrore con il suo codice genetico in maniera insuperabile. Lo scrivono a chiare lettere i giudici e i consulenti della difesa nulla hanno potuto osservare contro la correttezza delle indagini genetiche svolte: “Numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori hanno messo in evidenza la piena coincidenza identificativa tra il profilo genetico di Ignoto 1, rinvenuto sulla mutandine della vittima, e quelle dell'imputato”».
Anche la fiction su Yara ha fatto discutere. Gli avvocati della famiglia Gambirasio, Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo, hanno presentato un esposto al Garante della privacy per gli audio privati che la mamma di Yara aveva sulla segreteria telefonica della figlia e che sono stati trasmessi nella docuserie di Netflix senza neppure essere state inserite negli atti dell’inchiesta in quanto considerati inutili ai fini dell’indagine. «È stata un’incursione nella vita privata di questi genitori, senza che ci fosse una reale necessità e senza chiedere alcuna autorizzazione», dicono gli indignati avvocati.
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Sulla vicenda ci sono molte altre stranezze. C’è un Csm ignaro del procedimento a carico della Ruggeri («Un errore, una svista, una dimenticanza?», denuncia Enrico Aimi, consigliere laico del Csm per Forza Italia nella Prima commissione), tanto che l’organo di autogoverno della magistratura ha chiesto gli atti processuali ostensibili per poter svolgere ogni più opportuna valutazione». E fanno ancora discutere anche le immagini del furgone che passava davanti alla palestra di Brembate dove si allenava Yara. Per le indagini del Ris è quello di Bossetti, per la difesa non lo è anche per la strana «procedura di estrapolazione delle immagini», alcune difformità sugli orari delle telecamere e una macchia di ruggine. Poi si scoprirà che il filmato dell’Iveco Daily bianco dato in pasto alla stampa per mesi era una sorta di falso, confezionato ad arte. Delle cinque telecamere sulla scena l’unica immagine decente per fornire un’identificazione probabile arriva dalla seconda telecamera della Polynt, una ditta che sta di fronte alla palestra di Yara. Lo ammette il comandante del Ris, Giampietro Lago, a processo, a una domanda di Salvagni: «Perché allora è stato diffuso questo filmato?». «C’erano forti pressioni mediatiche, esigenze di comunicazione, per questo è stato confezionato il filmato in accordo con la Procura», è la risposta. Il furgone nei mesi scorsi è stato analizzato dal nuovo pool di consulenti di Bossetti per una analisi antropometrica utile a confrontare il furgone con le immagini della Polynt, situata in via Caduti dell’Aeronautica a 300 metri della palestra di Brembate di Sopra.
I colpi di scena ci saranno, come sempre.
La verità su Yara c’è, i giudici dicono che è stato Massimo Bossetti. I dubbi restano, come sempre, ad avvelenare il clima. Ma oggi, almeno oggi, bisognerebbe solo pensare a Yara, ai suoi sogni di 13enne spezzati da un orco che l’ha strappata via ai suoi cari.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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