Sessant'anni di film, sessant'anni di ricerca, sessant'anni di contraddizioni. Pochi registi hanno lasciato un segno nella storia del cinema come Agnès Varda, che è nell'Olimpo della settima arte senza il bisogno di ricorrere a pleonastiche quote rosa o simili. Insieme a colleghe del calibro di Lina Wertmuller e Margarethe von Trotta, Varda è riuscita a farsi largo grazie al talento, alla visionarietà e a un pizzico di follia, dimostrando che non esistono differenze di genere nella creatività. Tante le generazioni che hanno seguito la scia dei suoi passi in grado di scardinare le convenzioni. E ancora la battaglia condotta sempre in prima linea per la libertà artistica. Una grande donna, un grande esempio.
Agnès Varda e la Nouvelle Vague
Nata in Belgio da padre greco e madre francese, Agnès Varda si trasferì in Francia in tenera età. Lì iniziò a studiare fotografia, lavorando per le gallerie Lafayette e per il Théâtre national populaire parigino. Il primo film nel 1954, "Le pointe courte", con Philippe Noiret protagonista: venticinque anni, autodidatta, con nessuna esperienza pregressa. Budget limitatissimo, ma un grande respiro di libertà. E fu decisivo l'incontro con Alain Resnais, arruolato come montatore. Grazie a lui fu introdotta alla Cinémathèque Francaise e soprattutto entrò in contatto con i futuri protagonisti della Nouvelle Vague: da Jean-Luc Godard a Claude Chabrol, passando per François Truffaut, Jacques Doniol-Valcroze ed Eric Rohmer. La Varda si posizionò nell'ala più apertamente politica, la rive gauche, che includeva il già citato Resnais e Chris Marker.
Agnès Varda fu l'unica donna della Nouvelle Vague e portò avanti un modo di fare cinema intimo e personale, accendendo i riflettori sulle complessità dell'animo femminile. Prima attraverso la macchina fotografica e poi attraverso la macchina da presa, l'unico obiettivo di cercare"la bellezza dove forse non c'è", una calzante definizione del suo scopo d'osservazione. Dalla trama minimalista alle risorse limitate, attraverso la sua opera prima Varda contribuì a porre le basi per la Nouvelle Vague, inanellando una serie di lungometraggi/documentari di pregevole fattura mantenendo un’indipendenza teorica e poetica. Basti pensare a "Cleo dalle 5 alle 7" del 1962: un film su due ore della vita di una cantante che, dopo un passato sregolato, aspetta di conoscere i risultati delle analisi per sapere se sia affetta da un tumore.
Finzione, documentario e confini cancellati
Dopo "Cleo dalle 5 alle 7", Agnès Varda iniziò a concepire un approccio più teorico alla sua arte, navigando tra generi e formati e con un progressivo superamento dei confini tra finzione e documentario. L'accento posto sulla cronaca umanistica e sull'osservazione poetica-politica del mondo. Ma mossa da un indirizzo ben preciso: ispirazione, creazione, condivisione. Le persone al centro di tutto: da "Il verde prato dell'amore" sui rapporti uomo-donna con tema la libertà amorosa a "Black Panthers" sul processo agli esponenti delle Pantere nere, passando per "Daguerréotypes" e "Murs, murs", esempi perfetti sulla connessione tra realtà e rappresentazione."Non ho mai voluto dire niente, volevo solo osservare le persone e condividere", il suo mantra.
Ambiguità e antinomie erano già alla base di tutto il suo cinema, come il rapporto tra finzione e documentario: sin dall'inizio della sua carriera cancellò confini e barriere, aprendo il campo del cinema. "Per me non c'è finzione senza il suo lato documentaristico, non c'è film senza un intento estetico", il Varda-pensiero. L'arte cinematografica sempre connessa alla realtà, da qui l'impossibilità a mettere da parte il genere documentario. Dal punto di vista estetico, la belga ha sempre paragonato il lavoro del regista a quello dello scrittore: il taglio, il punto di vista, il ritmo delle riprese e del montaggio sono per un cineasta ciò che il significato delle frasi, il tipo di parole, il numero di avverbi, paragrafi e capitoli rappresentano per il romanziere.
Una vita dedicata alla settima arte
Agnès Varda riuscì a conquistare prima il pubblico europeo e poi quello americano con opere originali, mai banali, in grado di suscitare riflessioni e dibattiti. Nel 1985 arrivò il Leone d'oro al miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia per "Senza tetto nè legge", con protagonista una straordinaria Sandrine Bonnaire. Poi il fortunato incontro con Jane Birkin, la morte dell'amato marito Jacques Demy seguita da tre film in suo onore ("Garage Demy", "Les demoiselles ont eu 25 ans", "L'univers de Jacques Demy") e il tributo alla settima arte con "Cento e una notte".
Tanti, tantissimi i riconoscimenti raccolti negli ultimi anni di vita: tra gli altri la Palma d'oro onoraria al Festival di Cannes nel 2018 e l'Oscar onorario nel 2018, anno in cui fu candidata al miglior documentario per "Visages, villages", diretto insieme all'artista JR.
L'ultima firma d'autore il documentario autobiografico "Varda par Agnès", realizzato insieme a Didier Rouget. Il film venne presentato alla Berlinale all'inizio del 2019, lei morì poco dopo - a marzo - per un cancro. Una vita dedicata al cinema, fino alla fine.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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