Cara Vincenzina,
non mi stancherò mai di ripetere che le mele marce esistono in ogni ambito e all'interno di ogni categoria. Non soltanto in politica, dove pure abbondano, o nei giornali, dove non ce le facciamo mancare, ma anche nelle forze dell'ordine, quindi pure tra gli agenti della polizia penitenziaria, i quali - è bene sottolinearlo - svolgono compiti fortemente stressanti e si confrontano quotidianamente con situazioni di tensione, di sofferenza e di disagio estremo. Dobbiamo essere grati a questi poliziotti, tra i quali il tasso di suicidio è più alto rispetto al resto della popolazione (e questo vorrà pur dire qualcosa), proprio perché, sebbene non siano ristretti, vivono anch'essi l'atmosfera del carcere respirandone l'aria asfittica e il senso di disperazione che coglie i soggetti detenuti. Tale premessa è necessaria in quanto mi rifiuto di adottare anche io quel meccanismo di criminalizzazione che ci conduce a estendere la colpa di uno o di alcuni a tutti i membri del sottoinsieme, che pure non sono responsabili delle azioni altrui o della condotta delittuosa posta in essere da taluni colleghi.
Ritengo che delle condizioni difficili in cui lavorano gli agenti della penitenziaria non ci occupiamo mai, non ce ne frega un bel niente, come, del resto, ci disinteressiamo delle problematiche che caratterizzano i nostri istituti di pena, che sono vergognosamente sovraffollati, fatiscenti, vecchi, privi di servizi adeguati, gelidi in inverno e soffocanti in estate. E potrei proseguire. Queste le cause per le quali in cella si crepa spesso o ci si toglie la vita. Il suicidio troppo di frequente viene visto come l'unica maniera di evadere da un'esistenza ormai priva di speranza di redenzione e di riscatto.
Certo è che l'indagine che coinvolge numerosi agenti che erano operativi al Beccaria di Milano ci sconvolge e ci scandalizza, dal momento che non si tratta stavolta soltanto di poliziotti che maltrattano individui che versano in uno status di debolezza e soggezione in seguito alla sospensione della libertà personale e dell'isolamento dietro le sbarre, ma anche di adulti che si rendono autori di violenze terribili su minorenni i quali, quantunque in gattabuia per crimini gravi, sono da considerarsi quali persone fragili.
Ed ecco che l'abuso diviene ancora più turpe, più inaccettabile. Insomma, picchiare, per di più sistematicamente, con i sacchi di sabbia dei ragazzini per non lasciare i segni delle percosse o essere consapevoli che un giovane sta subendo uno stupro e abbandonarlo ai suoi carnefici, arrivando al punto di proteggere questi ultimi cancellando le tracce della violenza sessuale, sono fatti che ci provocano un senso di malessere e di disgusto. Siamo forse portati a credere che l'essere umano non sia capace di macchiarsi di simili orrori, invece lo è.
Tuttavia la soluzione non è quella che molti propongono, ossia l'abolizione del carcere minorile. Questo istituto non deve essere cancellato, ma migliorato. Esso deve rispondere efficacemente allo scopo fissato dalla Costituzione, scopo che per ora risiede solamente sulla carta: le carceri tutte devono favorire il processo di rieducazione e di reinserimento sociale. Ad oggi questo non accade. Semmai avviene l'esatto contrario: l'esperienza della detenzione in condizioni disumanizzanti non fa altro che convalidare, rafforzare e consolidare una scelta criminale, spingendo il detenuto, sia minore che adulto, sulla strada della devianza.
Non possiamo permetterci di perdere questo capitale umano.
Mi sia concesso un estremo appunto: ci siamo stracciati le vesti davanti all'immagine di Ilaria Salis che cammina in aula con le catene a polsi e caviglie, abbiamo giudicato aspramente il Paese in cui ella è trattenuta, l'Ungheria, eppure mi pare che le cose da noi non
vadano tanto meglio e che i diritti dei detenuti vengano calpestati anche sul nostro suolo.Tendiamo a guardare quello che succede nell'orto del vicino, reputandoci superiori e migliori, e mai quello che succede in casa nostra.
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