"E stutatelo ‘sto telefono...".
La voce tonante del maestro Riccardo Muti che interrompe il concerto di Natale in Senato non è solo un doveroso richiamo ai politici col telefonino acceso ma un meraviglioso omaggio a una parola italiana desueta, «stutare» come spegnere, che oggi magicamente risorge per qualche ora.Lungi dall’essere una parola tipica del Mezzogiorno, è piuttosto un nobile latinismo decaduto che per sua fortuna è sopravvissuto al Sud, dove trova ancora cittadinanza soprattutto in Calabria, Sicilia e una parte della Puglia. La ritroviamo in Boccaccio («Anzi che più s’accenda il fuoco, providamente pensate di stutarlo»), ma anche in Iacopone da Todi («’l tuo plagner me stuta»), la Treccani ci ricorda che l’etimologia è complessa e non immediata, ma merita un ragionamento.
Stutare deriva da "privativo" e "tutare", inteso come proteggere (vedi i suoi figlioletti come tuta, tutore e tutela), il che può significare togliere protezione, ma anche appunto estinguere, consumare, era conosciuto persino nella sua variante «astutare», in voga fino alla metà del 1700 nel Vocabolario della Crusca. Come sappiamo, l’uso delle parole deriva da una serie di fortune: la potenza espressiva, l’assenza di sinonimi, la facilità con cui si ricorda, la brevità della parola. Nel dialetto «stutare» si usa espressamente per il fuoco e la luce della candela, con la modernità è passato a descrivere l’azione rapida (quasi onomatopeica) di interrompere l’energia elettrica, spegnere il forno, il pc o appunto il telefonino.
Nella sua maestosa opera di ricostruzione dei dialetti, il maestro Gerhard Rohlfs si spinge anche a ipotizzare che stutare derivi da "extutare", vale a dire «guardare il fuoco coprendolo», come a mettere sullo stesso piano i verbi latini «tuere» (guardare) e il solito «tutare», cioè proteggere. Un’ipotesi affascinante sebbene difficilmente percorribile. Ma come avrà fatto Muti (padre medico di Molfetta in Puglia e madre napoletana, Gilda Peli Sellitto) a ripescare questa parola? Dal 2006 il maestro è di casa in Calabria. Folgorato dalla bravura di alcuni giovanissimi musicisti, nel 2008 diresse la banda di fiati di Delianuova a Ravenna, qualche anno dopo l’orchestra che diresse a Reggio Calabria di musicisti calabresi ne aveva 270 sul palco e quasi mille in tutto. Facile che l’abbia ascoltata in quegli anni e che l’abbia introiettata nel proprio «idioletto», cioè le linguistiche che una persona possiede e adopera.
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