Educare al cellulare non spetta allo Stato

L'istituzione prima al dovere di educare è la famiglia

Educare al cellulare non spetta allo Stato
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Caro Feltri,
dalla nomofobia, acronimo per no-mobile, sindrome da disconnessione che induce a evitare tutti gli spazi in cui l'uso del cellulare è vietato o la ricezione impossibile (gli psicologi hanno proposto d'inserirla nell'elenco dei disturbi mentali), al phubbing, l'atto di snobbare qualcuno, in un contesto sociale, fissando ossessivamente il proprio telefono, anziché prestare attenzione all'altro, mostrando sintomi di quella che può essere considerata una vera e propria dipendenza. Sono solo alcuni dei disturbi causati dall' uso compulsivo e sconsiderato della propria appendice tecnologica, volgarmente definita smartphone. Tra gli psicologi è vero e proprio allarme per questa pericolosa dipendenza, foriera di gravi ripercussioni sociali e sanitarie. Allora, così come si è brillantemente operato con il fumo, non si potrebbe, prima che i danni siano irreparabili, vietare l'uso di tali aggeggi in ristoranti e locali pubblici?
Mauro Luglio
Monfalcone

Caro Mauro,
sono contrario all'instaurazione dello Stato etico, quel tipo di ordinamento che avoca a sé, senza che gli venga richiesto e senza che questo compito rientri nelle sue prerogative, il dovere di educare e moralizzare le masse, insegnando, anzi imponendo, all'individuo come questi debba vivere, come si debba comportare, cosa debba indossare, mangiare, scegliere, comprare, addirittura pensare. Non è mediante l'esercizio di questa autorità, o di questo autoritarismo, che presuppone la compressione di libertà inviolabili e sacre, che la società progredisce, semmai regredisce, poiché il cittadino viene trasformato in suddito, la persona in numero. È la famiglia, prima cellula della società, a dovere educare. E non condivido l'abitudine dei genitori, sempre più diffusa, di dare in mano ai pargoletti lo smartphone giusto per distrarli e farli stare zitti, imbambolandoli. I bambini sviluppano in tal modo troppo precocemente una vera e propria dipendenza dagli apparecchi tecnologici, invece dovrebbero giocare, essere ascoltati, stare all'aria aperta, impegnarsi in attività ludiche e creative, interagire con i coetanei e non con un display. Tu osserverai che sono innanzitutto gli adulti a dovere acquisire comportamenti più sani curando il rapporto morboso, persino patologico, come tu metti in luce, con il cellulare. È vero. Si va a letto con il telefonino, ci si sveglia con il telefonino, si pranza e si cena con questo commensale onnipresente. Ma non si può imporre alle persone il divieto di utilizzare il cellulare al ristorante o in altri luoghi pubblici. Tu accetteresti di consegnare all'ingresso o di deporre in tasca fino all'uscita il tuo smartphone o subiresti tale imposizione come un abuso? E chi oserebbe prendere in mano l'apparecchio per rispondere ad una chiamata o ad un messaggio, magari importante o urgente, incorrerebbe in una multa o addirittura nell'arresto? Suvvia, non è con l'estremismo che si risolvono certe problematiche. Il divieto del fumo nei luoghi pubblici chiusi nasce dalla esigenza di tutelare la salute altrui, dato che il fumo resta nell'aria e viene respirato passivamente da chi si trova in prossimità del fumatore. Ecco la ratio. Invece l'uso del telefonino da parte mia non nuoce, al massimo crea fastidio se sono maleducato e urlo alla cornetta o tengo la suoneria a volume esagerato, a chi mi sta accanto, estranei o conoscenti. Il mio sentirmi eventualmente ignorato da colui che, standomi accanto o davanti, adopera il telefonino non giustifica la proibizione a carico di questi di maneggiarlo.

Semmai sarei io, qualora non condividdessi tale atteggiamento e lo vivessi come una intollerabile mancanza di rispetto verso la mia persona, ad evitare di accompagnarmi a certi soggetti, che hanno perso il contatto con la realtà rinchiudendosi in una virtualità che non è altro che assenza di contatto, qualcosa che mortifica la nostra umanità, rendendoci più poveri spiritualmente, più soli e più infelici.

Si tratta di peccati e vizi, non di reati da punire.

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