Sforza quelle pupille svelte per indovinare la scia del corpo celeste. Lo zio Giovanni la osserva compiaciuto, mentre lei maneggia il telescopio. Quell’universo è così sfumato che fatica a orientarsi. Quel che invece distingue con disinvoltura è il suo immediato futuro. Non certo l’astronomia, terreno d’elezione del celebre parente, ma una stimolante carriera da attrice. I suoi però arricciano il naso. Meglio riporre queste vacue suggestioni per iscriversi a lettere e filosofia. Non sanno ancora – come potrebbero del resto – che la stella di Elsa Schiaparelli è destinata a scintillare altrove.
Un’infanzia aristocratica, un destino disertato
Elsa nasce a Roma il 10 settembre 1890. Il padre, Celestino, è un riconosciuto intellettuale. La madre invece discende direttamente da un ramo mediceo. Un contesto agiato, ideale per coltivare le proprie inclinazioni. Quando però il vezzo diventa la poesia e il risultato una raccolta pubblica di componimenti licenziosi, papà cerca di correggere la rotta spedendola a rimuginare in un convento svizzero.
Dura un paio di anni. Elsa reagisce all’imposizione trasferendosi a Londra, dove la attende un’intersezione del destino diversa. Conosce il conte William de Wendt de Kerlor, e se ne invaghisce. Lo sposerà quando scocca il ’14 e con lui si trasferirà a New York, dove avranno una figlia. Morsica la Grande Mela iniziando ad avvicinarsi a case di moda e passerelle. Il matrimonio però è destinato a sfaldarsi in fretta. Allora torna in Europa, a Parigi. Qui inizia a scambiarsi effusioni corrisposte con avanguardisti e dadaisti.
La nascita della Maison e le nuove influenti amicizie
La Ville Lumiere è il terreno ideale per coltivare il suo fermento interiore. Giunta all’età di trentasette anni, sa perfettamente cosa vuole essere. Affitta un posto a rue de La Paix e inizia a materializzare il suo sogno. La sua Maison, inaugurata nel 1927, diventa ben presto tappa inevitabile per molti grandi artisti del tempo, a cominciare da Salvador Dalì.
Non fa tutto da sola. Non potrebbe. La assiste una rifugiata armena con la passione per gli abiti. La aiuta a realizzare creazione ossimoriche: sono sfarzose, ma anche facilmente indossabili. Quell’aristocratica vestibilità cattura in egual misura nobili e popolani. È il surrealismo, del resto, a impregnare le sue creazioni. Gli abiti che propone omaggiano Jean Cocteau e Leonor Fini, strizzano l’occhio ad Alberto Giacometti, Marcel Duchamp e Man Ray. L'arte applicata alla vita quotidiana.
Quella sfida a Coco Chanel
Negli anni Trenta la fama di Elsa cresce a dismisura, ma c’è un altro grande nome che abita quel periodo, luccicando anche più del suo: Coco Chanel. All’approccio semplice e austero incarnato dalle creazioni di quest’ultima, Elsa contrappone una vivida esplosione di colori stravaganti. I suoi abiti sfidano l’eleganza classica della Chanel a colpi di blu pervinca, verde lattuga e rosa shocking, la tonalità che più rappresenta quel senso di rottura con i dogmi.
Anche le forme risentono delle conoscenze che è riuscita a procurarsi tramite l'amica e collega Gabrielle Picabia, moglie di uno dei fondatori del dadaismo francese e dunque porta girevole su un mondo altrimenti inaccessibile. Gli artisti che frequenta a New York e Parigi suggeriscono sfumature concettuali inedite. Con Dalì crea l’abito scheletro. Da Cocteau si fa disegnare stravaganti giacche prive di bottoni. Inventa lei la prima chiusura lampo. Si lancia producendo eccentrici cappelli sormontati da insetti. La sua maison, nel frattempo trasferita in Place Vendome, è talmente fervida da contrastare per chiara fama quella di Coco.
Una fonte di ispirazione trasversale
Alla dirompente tensione creativa di Elsa – “la Schiap”, per chi la vive nel settore – si ispireranno i couturier più disparati. Un flirt voluminoso che scocca, tra i molti, con gli Armani e gli Yves Saint Lauren, i Dolce & Gabbana e gli Alexander Mc Queen.
Donna riluttante all’ipotesi di un destino impacchettato, Schiaparelli apre una fenditura profonda nella cortina patriarcale che la circonda, indicando nitidamente una chance di autodeterminazione a tutte le altre, qualunque sia l’afflato che le attraversa. Nobile per genetica, trasfonde quella percezione sacrale anche al suo lavoro: “Disegnare abiti – disse una volta – non è una professione.
È un’arte. Una delle più complesse, difficili e sconfortanti perché un vestito, quando nasce, appartiene già al passato”. Non serve un telescopio, tuttavia, per accorgersi che le sue creazioni sono prive di data di scadenza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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