Franco Pepe, campione del mondo di pizza: "Per non perdere il primato dobbiamo insegnarla nelle scuole""

Il pizzaiolo di Caiazzo (Caserta), fresco vincitore dei The Best pizza awards, ci racconta il suo mondo (e la sua pizza): "Il livello del prodotto si è alzato ma non chiamatela gourmet"

Franco Pepe, campione del mondo di pizza: "Per non perdere il primato dobbiamo insegnarla nelle scuole""

Quando sente la parola gourmet accostata alla pizza Franco Pepe storce un po’ il naso. “Non mi piace usarlo perché è un termine che appartiene al mondo della ristorazione non al nostro”, precisa. Il pizzaiolo-panificatore di Caiazzo, dove nel 2012 ha aperto Pepe in Grani – non una semplice pizzeria ma un vero e proprio laboratorio con clienti da tutto il mondo – ha appena conquistato il premio The Best pizza awards. Si tratta di uno spin off di The Best chef awards, rassegna che dal 2015 mette in classifica i più grandi talenti della ristorazione con cui spesso Pepe collabora.

marghe sbagliata
La margherita sbagliata, una delle pizze più famose di Franco Pepe

Da un po’ di tempo, questa competizione, molto celebre per chi sguazza nel mondo del food, sta dedicando sempre più spazio alla pizza. Se fino all’anno scorso i pizzaioli venivano, infatti, riconosciuti con un premio speciale, adesso vengono incolonnati anche loro in una top 100, proprio come gli chef. Ciò significa una cosa molto semplice: la pizza non è solo quella che si mangia nei vicoli di Napoli, ma si può staccare dalla dimensione popolare e accostarsi all’alta cucina. Con varie interpretazioni, filosofie e distinguo.

Pepe, di premi e riconoscimenti ne ha avuti tanti in carriera. Che ne pensa di quest’ultimo? È un altro trofeo da mettere in bacheca o assume un valore particolare?
"Penso sia uno dei riconoscimenti più prestigiosi che abbia mai ricevuto. Le spiego perché. A differenza di altre situazioni, in questo concorso era prevista la votazione dei colleghi pizzaioli e so di esser stato scelto sia da gente affermata che da ragazzi molto giovani. Mi fa tanto piacere che riconoscano il mio lavoro. Altra bella notizia, al di là del vincitore, è che la pizza sia stata valutata in un contesto di alta ristorazione, certificando la maggiore attenzione che sta avendo il prodotto in determinati contesi".

È cambiata tanto la pizza negli ultimi anni.
"Negli anni 70-80’ la pizzeria si identificava con il pizzaiolo e prendeva da lui il nome. Concetto un po’ superato perché adesso, se ci allontaniamo dalla dimensione popolare, chi fa pizza deve confrontarsi con la cucina. Ha una brigata con cui pensare ai condimenti e un servizio di sala sempre più strutturato".

Quanto si è alzato il livello della pizza?
"Tanto. Ora, dappertutto, c’è più attenzione alla materia prima, ma non solo a livello di gusto. Si lavora sul sano: dal condimento alle lievitazioni. Nella mia carta, ad esempio, ospito un menu funzionale di 12 gusti realizzato insieme a una nutrizionista, con 7 pizze che hanno ottenuto un bollino Airc. La pizza non è un peccato di gola. Se eseguita con i giusti criteri è un alimento, sano e completo. Un baluardo della Dieta mediterranea, di cui sono ambasciatore nel mondo".

Questo mondo merita più attenzione anche dalla Guida Michelin?
"Noi pizzaioli ci siamo avvicinati a molti criteri delle linee guida della Michelin. Abbiamo fatto salire non solo il valore prodotto ma anche lo stile del locale e l’offerta. Ho una carta con 140 etichette di vini e i sommelier per gli abbinamenti. Ma non credo che dovremmo essere premiati con la canonica stella, piuttosto meriteremmo un riconoscimento apposito per le pizze. Fra chef e pizzaiolo ci sono sempre più cose in comune, ma restano due figure diverse".

Perché?
"Semplice. Lo chef deve trasformare gli ingredienti per creare un piatto, noi saremo sempre vincolati all’impasto".

Stiamo parlando di alta ristorazione. Ma la pizza popolare che fine fa?
"Deve sopravvivere eccome. La pizza ha un’anima democratica e deve essere accessibile a tutti. Io nel mio locale preparo anche la pizza a portafoglio. Si può mangiare come street food e costa due euro. Chiaro che il prezzo dipende pure dal valore della materia prima e dalla location: se mangi su una terrazza al centro di Milano o in Franciacorta, è giusto che paghi di più".

Già, i prezzi, a volte sono sembrati eccessivi…
"A volte le polemiche sono esagerate. Il prezzo va contestualizzato rispetto al territorio: la vita delle grandi città del Nord è più costosa rispetto a un paese come Caiazzo. Poi, per tornare alle polemiche sulla pizza di Briatore voglio dire una cosa. Lì l’errore non era il prezzo, che era giusto, perché il Patanegra è un prodotto costoso. L’errore era semmai tecnico perché non puoi mettere il prosciutto crudo su un condimento caldo, rischi di rovinarlo e perdere le sfumature del gusto".

Lei è famoso per la margherita sbagliata, una reinterpretazione semplice ma elegante del gran classico. Perché le dà così fastidio il termine gourmet?
"Il gourmet appartiene agli chef. Che hanno competenze diverse e nei piatti esprimono una creatività che non si può replicare nella pizza. Devo ammettere che il mondo pizza non ha le competenze scientifiche e tecniche per fare certe cose. Stiamo aspettando che a livello istituzionale si possa creare un percorso dedicato al pizzaiolo nelle scuole alberghiere. Abbiamo bisogno che la nostra figura sia ben riconoscibile e dotata di strumenti sin dalle scuole. Così, quando noi realtà più affermate cerchiamo qualcuno, non dobbiamo partire da zero. Di solito chi fa questo mestiere lo fa di famiglia, ma non deve essere solo così. Ad oggi le scuole di pizzeria sono solo private e gestite da sponsor".

Nella top 10 di The Best pizza awards ci sono alcuni colleghi stranieri. Che vuol dire questo?
"Che la pizza, pur rimanendo simbolo italiano è diventata un prodotto globale. La pizza si fa ovunque e può essere buona ovunque: basta non replicare quella degli altri, ma sfruttare le materie prime che si hanno sul territorio. Sarah Minnick, ad esempio, fa un’ottima pizza in Oregon con prodotti del posto: non è la napoletana ma è una interpretazione di livello".

Lei ha scelto di rimanere nella sua Caiazzo, dove ha creato un vero e proprio tempio della pizza mondiale. Ma che consiglio darebbe a un giovane pizzaiolo ambizioso che vuole fare conoscere le sue idee e la sua filosofia? Può farcela rimanendo a casa o per crescere è necessario il confronto con le grandi città?
"I percorsi devono farsi a tappe. Io sono partito dal mio territorio. Solo dopo sono riuscito a dialogare con il mondo. Posso dire di esserci riuscito".

Nel genere pizza napoletana, si parla della dicotomia tra bordo di canotto e ruota di carretto per quanto riguarda lo stile dei cornicioni, uno più gonfio e il secondo più steso. Poi ci sono la romana e le altre. Se lei avesse adesso voglia di pizza che tipo sceglierebbe e che gusto?
"La mia (ride, ndr). Una cosa voglio dire sul cornicione: nella pizza non deve essere esagerato rispetto al condimento, perché troppi carboidrati creano squilibrio. Ecco perché in alcune pizze ho creato un dressing aggiuntivo per accompagnare l’impasto".

dressing
Una pizza del menu funzionale: il dressing aggiuntivo serve per garantire l'equilibrio nutrizionale con i carboidrati

Farine di grillo, insetti ecc. La farebbe mai una pizza così?
"Ne ho sentito parlare ma non ho provato e non ho voglia di provarla.

Faccio attenzione a dire non si può fare, ma penso questo: la pizza è identificativa del grano, miglioriamo la qualità dei grani piuttosto".

E con il granchio blu?
"Non la farei mai per effetto mediatico. Non l’ho mai assaggiato. Finché non lo assaggio non lo posso dire".

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