I social: non uccidono ma possono ferire

I social network non hanno contribuito a peggiorarci, bensì forse hanno reso più evidenti i nostri vizi, i nostri difetti, la nostra mediocrità

I social: non uccidono ma possono ferire
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Caro Direttore Feltri,
ormai i social sono diventati contenitori di odio in cui la gente scarica i suoi peggiori sentimenti, rabbia, frustrazione, nervosismo, insoddisfazione, cattiveria, malessere personale magari dovuto ad una esistenza infelice. Stavamo meglio quando non c'erano, forse eravamo meno cattivi, in qualche modo eravamo migliori prima dell'avvento di Facebook, Instagram, Twitter, ora chiamato X. Dovremmo abolirli e tornare ad essere quello che eravamo. Magari se non ci fossero stati, la ristoratrice che si è uccisa probabilmente a causa dell'odio ricevuto sul web sarebbe ancora in vita.
Lei che ne pensa?
Sebastiano Piazza

Caro Sebastiano,
sono costretto a dissentire. I social network non hanno contribuito a peggiorarci, bensì forse hanno reso più evidenti i nostri vizi, i nostri difetti, la nostra mediocrità. Essi non sono che lo specchio della società, la gente che li frequenta è la stessa che troviamo in giro, per strada, al bar, sul posto di lavoro, in famiglia, soltanto che al di là di uno schermo ci si sente più protetti e quindi si è più propensi a tirare fuori il peggio, dandogli sfogo. L'odio che i social contengono è quello che tracima dalle nostre anime. Non ce lo abbiamo semplicemente addosso, lo portiamo dentro.

Sarebbe bello se, eliminando la rete, le persone divenissero improvvisamente più sensibili, più umane, più civili. Magari bastasse così poco per evolvere. Non sono a favore della demonizzazione della tecnologia, di cui pure io faccio uso. E io stesso sono stato insultato, offeso, criticato, attaccato con veemenza sul web ma non mi sono lagnato. Potrei mai preoccuparmi della opinione che perfetti sconosciuti, con i quali mai ho interloquito e che di fatto non mi conoscono, hanno di me? La verità è che per stare al mondo, che ci piaccia o meno, dobbiamo fortificarci. Nessuno nasce robusto, è l'esistenza stessa, con i suoi dolori, a renderci tali. Non è forse più facile cambiare noi stessi anziché attenderci che il mondo intero cambi per noi allo scopo di non farci più male, di non ferirci?

Spesso, inoltre, pretendiamo di affidare un ruolo educativo a strumenti quali tv o social network, come se vivessimo in uno Stato etico dove ogni cosa deve essere scremata e rispondere ad uno scopo formativo o ideologico che sia a sua volta conformato ai dettami del politicamente corretto, dell'ammissibile, pena la censura. Non credo che il fine dei social sia ammaestrare, insegnare, istruire, abolire l'odio dalla società.

Chi utilizza queste diavolerie del nuovo millennio, chi frequenta assiduamente questo altrove virtuale, che nasconde non poche insidie, deve approcciarsi ai social network con la consapevolezza che è agevole incappare nella critica anche feroce, nel commento aspro, nel giudizio impietoso a causa dei nostri pensieri o del nostro aspetto, tuttavia non sono mai le opinioni degli altri sul nostro conto a definire chi siamo. Ci tocca librarci al di sopra di tutto ciò. Quello che ci definisce sono le nostre azioni, ossia i nostri comportamenti.

Ha senso domandarsi adesso, come tu fai, se la ristoratrice sarebbe ancora in vita se non ci fosse Facebook? A mio avviso, non ha alcun senso. Non amo discettare di ipotesi. Ritengo che la signora avesse delle sue personali fragilità e che la polemica di cui è stata protagonista non sia stata la causa fondamentale che l'ha condotta ad assumere una scelta estrema.

Al massimo si è trattato di un evento che ha concorso ad acuire un malessere pregresso e mai affrontato.

Troppo comodo fare dei social network, degli influencer o dei giornalisti una specie di capro espiatorio di colpe che appartengono un po' a tutti noi.

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